la Repubblica, 13 aprile 2024
Intervista ad Alessandro Buongiorno
Alessandro Buongiorno, da quand’è al Toro?
«Dal 2005. Mi presero che avevo sei anni».
Da allora il Toro ha vinto un solo derby, nel 2015, dopo 20 anni che non ne vinceva uno: com’è essere granata dalla testa ai piedi e non sapere cosa significhi essere felici nel giorno più granata che ci sia?
«Per fortuna ne ho vinti tanti nel settore giovanile. Con le dovute proporzioni, differenze a livello di emozioni non ce ne sono. Nella settimana del derby ero pieno di carica già da piccolino. E quando si vinceva, era festa».
Ce n’è uno che ricorda in maniera particolare?
«Avrò avuto 10 o 11 anni, c’era questo attaccante della Juve più grosso di me, cosa che succedeva di rado, ce ne siamo date un sacco. C’è una foto dove io sono schiacciato tra lui e il portiere, sembro il ripieno di un sandwich. Mi sono divertito un mondo. E abbiamo vinto».
Si diverte a sfidare i centravanti che menano?
«Guardatemi: ho graffi e lividi dappertutto, un labbro rotto... Sono contento se ci si prende un po’ a botte, mi piacciono le sfide con quelli che le danno e le prendono, specie se sono grandi e grossi, tipo Djuric o Lukaku».
Con Vlahovic com’è messo?
«L’ho marcato una volta sola, quand’era alla Fiorentina».
È uno che la trascina nella lotta?
«Se non lo fa lui, lo trascino io».
Non crede che più che Vlahovic, il problema sia che per voi il derby è diventato un tabù?
«Lo dico male: questa lunga attesa fa rosicare. Però provarci e riprovarci è una cosa da Toro».
È la pressione dell’aspettativa a sovrastarvi?
«Preferisco pensare alla spinta che dà. No, ansie e tensioni non ne aggiunge».
Neanche a lei, che è del Toro da sempre?
«Mi piace la settimana prima della partita, è particolare, te la vivi al massimo e prendi le giuste accortezze: a dormire presto e non sgarri di un millimetro neanche a tavola. Ho sempre fatto così».
Questo derby arriva nel periodo della sua maturità?
«Sì, mi coglie maturo. Il mio miglioramento è stato costante, ho messo assieme le conoscenze diverse che ho appreso e non solo negli ultimi anni, ma anche quando ero piccolo o giocavo in B.
Qualcuno mi ha insegnato di più a livello tecnico, qualcun altro a livello mentale o di comprensione del gioco. Sono convinto di poter migliorare ancora».
È vero che in pochi le avevano pronosticato questa carriera?
«È vero. Ci sono due salti di qualità, nella mia crescita: il primo è stato quando sono rientrato al Toro dalprestito al Trapani, l’allenatore era Giampaolo ed ero un esubero. Fin lì mi ero mosso in prima squadra con timidezza, senza tirare fuori la mia personalità, ma quell’estate mi dissi: giocatela, fai la cosa che ti piace e cerca di non avere rimorsi, cavolo. Capii che se avessi parlato in campo, se mi fossi fatto notare, se avessi cercato la giocata più difficile, se avessi tenuto la mente libera ce l’avrei fatta. Il secondo scatto è stato l’anno scorso: anche grazie a Juric, è venuta fuori la mia attitudine a essere leader».
Lei si sente leader?
«Sì. Sento l’attitudine a poterlo essere. E sono convinto di doverlo essere con i comportamenti, prima che con le parole. È più importante dimostrare che dire».
Vale anche per la trasmissione dello spirito granata?
«Indubbiamente. Io ho avuto tanti allenatori tifosi che mi hannoinsegnato il Toro: Capriolo, Vela, Mezzano, Menghini. Ma basta passare un 4 maggio a Superga per rimanere segnati per sempre: sono sensazioni che non si vivono da nessun’altra parte. Il silenzio assoluto delle migliaia di persone davanti alla lapide è così intimo e al tempo stesso così collettivo: un’assonanza di anime. L’anno scorso, quando il capitano Rodriguez ha voluto che fossi io a leggere i nomi dei caduti, mi tremavano letteralmente le gambe. Perciò urlai quei nomi più forte chepotei. Cerco di prendere in consegna i valori degli Invincibili e auguro a me stesso di avere la loro stessa umanità, il valore più importante».
Chi è il più “da Toro” dei suoi colleghi?
«Il Toro è una roba di cuore: Linetty mi ha colpito».
La Nazionale è stata il suo terzo salto di qualità?
«Eh sì. L’azzurro ti dà visibilità, la possibilità di confrontarsi con avversari di alto livello e di imparare da compagni con cui disolito non ti alleni. Il calcio di Juric è diverso da quello di Spalletti ma non mi riesce difficile passare da uno all’altro: sono entrambi molto chiari nello spiegare cosa vogliono. L’idea di poter partecipare all’Europeo mi emoziona».
Si sente pronto?
«Lo sarei, perché studierei tutti i miei possibili avversari».
Studiare le piace, è laureato con 110 e lode in Economia e sta proseguendo con l’università: stare sui libri le serve anche in campo?
«Un sacco, perché apre la mente, permette di comprendere meglio cosa dicono gli allenatori e a mantenere alta la concentrazione, specie quando ti fanno le lezioni tattiche al video e c’è il rischio di distrarsi. In partita mi aiuta a leggere in anticipo le situazioni di gioco: studio l’attaccante da affrontare, come gli arriva il pallone. Se lo assimili, poi in campo puoi muoverti senza bisogno di pensare a cosa da fare. Vado spesso nelle scuole e insisto sempre su questo tasto: ragazzi, studiate, se no avrete dei rimpianti».
Com’è andata la settimana?
«Ho percepito tutto come da bambino, quando andavo a piedi allo stadio, abitavamo a due passi».
All’esordio in A, lei entrò all’82’ e sei minuti dopo si ruppe il gomito: cosa pensò?
«Che ero proprio del Toro. Il giorno più bello e più brutto».
Ha mai segnato in un derby?
«No. Ma prima o poi...».