la Repubblica, 13 aprile 2024
Back to Amy
Un biopic su Amy Winehouse era impresa difficile: è la storia di una delle artiste musicali di maggiore talento, un Grammy a vent’anni, ma anche la parabola personale, tra dipendenze e persecuzione dei media, culminata nella tragedia del 2011. In più c’era l’impronta indelebile lasciata da Amy,il documentario premio Oscar di Asif Kapadia, le immagini autentiche, intime e sconvolgenti, della cantante a partire dall’infanzia.
Ad accettare la sfida diBack to black,in sala il 18 aprile con Universal, è stata Sam Taylor-Johnson, regista e videoartista, che ha raccontato le origini di John Lennon inNowhere boy,2009, protagonista l’attuale marito Aaron; i 23 anni di differenza tra i due sono stati oggetto di grande attenzione mediatica, specie ora che l’attore è dato per certo come il nuovo Bond. Incontriamo Sam Taylor-Johnson e Marisa Abela, la protagonista, in un salottino del londinese Corinthia Hotel. Si inizia parlando di Italia, «mia sorella – spiega la regista – vive a Bologna, ho nipoti italiani. Sono stata alla Biennale di Venezia nel 1997, un’esperienza incredibile, faticosa ma divertente. E lo scorso dicembre ho fatto una mostra fotografica a Roma».
A Venezia era in giuria per il premio dedicato ai giovani talenti.
Taylor: «Scoprire nuovi artisti è la parte migliore del mio lavoro. Ho capito che Marisa era la scelta perfetta per questo film nel momento in cui ha guardato in camera».
Abela: «Io pensavo di essere andata malissimo. La sera prima il mio fidanzato, che recitava in una commedia teatrale, è arrivato a casa quasi a mezzanotte. Mi ha trovato pronta, seduta su una sedia: “ora faccio l’audizione per te”. E così ho fatto. Ero nervosa. Poi la mattina dopo, a Leicester Square, avevo le idee chiare. Devi preparati tanto prima, ma nel momento in cui reciti devi essere quieta e connetterti con ciò che fai».
Taylor, lei ha seguito Winehouse fin dagli inizi sulla scena londinese.
«L’ho vista molto giovane esibirsi nel jazz club di Ronnie Scott. Mi ha tolto il fiato sentire quella magia, poi seguire la traiettoria di un talento speciale e raro. La sua storia è diventata il mio viaggio di questi due anni».
Cosa rappresenta la sua figura nella storia della musica e per le nuove generazioni?
Taylor: «È interessante: io ho quattro figlie, la più piccola ha 12 anni, e ha dovuto ascoltare Amy perché io l’ascoltavo tutto il tempo. Le canzoni hanno iniziato a risuonare dentro di lei. Winehouse ha la capacità di parlare in modo trasversale alla mia generazione e a quella di mia figlia.
La sua musica trascende il tempo, come Billie Holiday e DinahWashington e gli artisti che lei amava».
Abela: «Prima di interpretarla ne conoscevo la musica ma non la vita.
Ero molto giovane quando lei era famosa. Per me è si è trattato di vedere il mondo da quel punto di vista, ma può essere complicato quando il mondo ha un punto di vista così intenso su quella persona».
Parlando di questo, Amy Winehouse è dipinta come una figura tragica, accomunata al club degli artisti morti giovani. Nel vostro film è molto più vitale.
Taylor: «Sentivo che aveva bisogno di essere restituita alla sua musica e a chi era davvero, non solo la vittima di una tragedia che ha messo in ombra la sua reale personalità. Ho fatto il film dal suo punto di vista, usando le sue parole e i suoi testi, per radicare il pubblico nel suo mondo».
Cosa scoprirà il pubblico con questo film?
Taylor: «Molti, tra quelli che lo hanno visto, mi dicono che viene voglia riascoltare la sua musica ma con una prospettiva diversa. Era il mio intento».
Lei ha ribadito di aver lavorato in modo del tutto indipendente dalla famiglia. Ma ho rivisto “Amy” di Asif Kapadia, che è un racconto più oscuro, anche rispetto al ruolo del padre. Tutto questo non c’è nel suo film.
«Asif ha fatto un documentario con una prospettiva molto forte. La mia era diversa, volevo che il pubblico vivesse la storia di Amy attraverso le sue parole, la sua prospettiva. Il nostro giudizio è esterno, io volevo stare dentro, con lei. Tocchiamo gli stessi fatti, ma con una lente diversa».
Il film racconta della pressione mediatica violenta, la persecuzione dei paparazzi.
Abela: «Era importante mostrare la realtà della sua vita. In strada, a Camden, era perseguitata dai paparazzi. Dietro le immagini dei tabloid ci sono donne perseguitate in ogni momento della vita. Questo è accettato dalla nostra cultura. Noi ricordiamo al pubblico cosa c’è dietro queste immagini e l’effetto che hanno su una persona».
Taylor: «È importante mostrare quanto questo l’abbia influenzata.
Nel film c’è la scena in cui lei cade e gli obiettivi si abbassano per ottenere un’immagine migliore, ma nessuno l’aiuta».
Era anche bersaglio di violente battute nei talk o da parte di pseudo comici.
Taylor: «Quando sono state annunciate le nomination ai Grammy circolavano un sacco di battute su di lei e sulla sua dipendenza. Oggi abbiamo maggior rispetto della salute mentale e della dipendenza. Ma è impressionante vedere come la gente la facesse franca, prendendola in giro quando era in scena».