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 2024  aprile 12 Venerdì calendario

I prigionieri dimenticati

Sono i dimenticati. Di loro non si parla mai. Si parla poco anche degli internati militari in Germania. Ma dei prigionieri degli inglesi – e poi anche degli americani – si parla ancora meno. Eppure furono 650 mila. Spediti dall’altra parte del mondo in Sudafrica, in India, in Australia. E reclusi per anni, anche dopo la fine della guerra.
A volte si pensa che dopo l’8 settembre quelli rimasti fedeli al re siano potuti tornare in Italia, mentre nei campi siano rimasti solo i fascisti; ma non è affatto così, rientrarono solo poche migliaia, per lo più ufficiali. Le vite dei soldati furono spezzate. Ricostruirle fu molto difficile. Ora le racconta il figlio di uno di loro: Giuliano Giubilei, storico volto del Tg3, che ha scritto per Solferino un libro bellissimo, che fin dal titolo evoca una stagione infelice della storia d’Italia.
Giovinezza non è quella gonfia di retorica evocata dalla canzone fascista, ma quella vera: la giovinezza sequestrata da Mussolini a una generazione di italiani, mandata a morire in una guerra senza speranza o a marcire nei campi di prigionia inglesi e americani sparsi in mezzo mondo. Giovinezza parla soprattutto di loro. Erano tanti, una cifra spaventosa: oltre 650 mila. Catturati nel deserto nordafricano, negli altipiani dell’Etiopia o sulle coste siciliane e tornati a casa quando la guerra era finita da quasi due anni ed erano passati tre anni e mezzo dall’armistizio.
L’autore ricostruisce il loro calvario partendo dalla storia della sua famiglia. Quattro fratelli che si trovano a combattere quasi contemporaneamente, su fronti diversi. Una vicenda unica ma drammaticamente simile a quella di tante famiglie italiane. E che rivela circostanze storiche ancora non del tutto approfondite.
Il desiderio di scriverla parte senz’altro dalla ricerca del percorso compiuto dal padre, partito volontario per la guerra – era una camicia nera —, catturato in Libia dagli inglesi i primi di gennaio 1941 e tornato solo nel febbraio 1947, dopo un’interminabile prigionia, scontata tra l’India e l’Australia. Anche gli altri fratelli hanno avuto storie simili. Uno, in particolare, fatto prigioniero dagli americani in Sicilia, fu trasferito nei campi francesi – veri e propri lager – in Nord Africa, a Biserta e Costantina. Da quest’ultimo riuscì a fuggire e, pur di non essere riacciuffato dai francesi, o peggio ancora dai loro aguzzini algerini, preferì consegnarsi agli inglesi.
Ma non è questa l’unica fonte del libro, a metà strada tra il saggio e il romanzo. Giubilei ha lavorato sulle rare ricerche storiche e sulle memorie dei combattenti, conservate nei diari dell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano. Racconti che rivelano il punto di vista dei soldati sui grandi avvenimenti che li avevano travolti e i loro giudizi sull’Italia, su Mussolini, sulla guerra; ma che ci fanno scoprire anche la quotidianità del prigioniero.
La politica di loro non si è occupata. Alla destra ricordavano il disastro della guerra. Per la sinistra erano pur sempre i soldati di Mussolini. E i democristiani volevano tenersi buoni gli americani. Da qui la rimozione collettiva.
La grande caccia, per gli inglesi, era cominciata subito: nelle prime battaglie tra Libia ed Egitto – fine dicembre 1940 e febbraio 1941 – quando l’armata italiana venne travolta. Migliaia di morti, armamenti distrutti, disegni di potenza crollati come un castello di carte. In poche settimane si arrendono oltre 130 mila soldati. Il protagonista del libro, Andrea Monteschi, è tra questi. Per lui e per gli altri, dopo il dramma della cattura si apre un percorso durissimo. Dal deserto vengono trasferiti a marce forzate e poi con treni o navi, fino alla destinazione finale. Ad Andrea tocca il campo di Bhopal, cuore dell’India, dove contrae la malaria che lo accompagnerà per tutta la sua breve vita; poi quello di Cowra, in Australia. Ma per lui la prigionia, oltre alle sofferenze fisiche e alle umiliazioni, coincide con un penoso cammino interiore che, con la consapevolezza dell’inganno in cui era caduto, lo porta a rifiutare il fascismo e a mettere in discussione le scelte della sua vita precedente.
La storia dei 650 mila Pow, acronimo di prisoner of war, non era stata ancora mai raccontata. Ma il libro di Giubilei apre interrogativi che vanno oltre la vicenda umana dei protagonisti. Non solo sulle condizioni della prigionia, e non sono mancati episodi gravissimi, ma anche sulla sua inspiegabile durata. Ed è forse questo il tema centrale.
Come è stata possibile una reclusione così lunga? Per moltissimi addirittura di cinque, sei anni. L’Italia poteva fare di più per riportarli a casa? Nei dialoghi tra i prigionieri questo tema torna continuamente. Le loro giornate sono divise tra inedia, angoscia, rassegnazione; desiderio di rivedere le famiglie, sempre frustrato; progetti di fughe impossibili o magari realizzate, ma di breve durata, come quella che fa scoprire ad Andrea ed alcuni compagni un mondo sconosciuto, l’India.
Il romanzo racconta anche i momenti drammatici che si vissero nei campi dopo l’8 settembre, quando ai reclusi la libertà sembrò vicina. Non sapevano che per qualche inspiegabile motivo al momento dell’armistizio né Badoglio né i suoi collaboratori avevano sollevato il problema dello scambio dei prigionieri. Mentre l’Italia si impegnava a riconsegnare immediatamente i pochi soldati inglesi detenuti, non c’era un impegno analogo da parte alleata. Perché? Forse Badoglio pensava che la loro liberazione fosse scontata? Ha ceduto alle pressioni degli Alleati? Il fatto è che Andrea e gli altri 650 mila restarono ancora molto tempo in mezzo alle paludi indiane, a spaccare pietre in Australia o a coltivare mais negli Stati Uniti.
Giovinezza racconta anche un evento davvero quasi sconosciuto eppure molto importante: gli Alleati organizzarono un vero referendum tra i prigionieri: si chiedeva se fossero disposti a collaborare, cioè lavorare per gli angloamericani, o se invece volessero rimanere fedeli a Mussolini. La consultazione creò profonde tensioni tra fascisti e antifascisti, ma provocò sconcerto anche tra chi – pur antifascista – non se la sentiva di cooperare con gli inglesi, dopo averli combattuti e dopo aver subito per tre anni il loro arrogante atteggiamento. Drammatico, nel racconto, il dialogo tra un ufficiale britannico e Andrea Monteschi, che pur avendo ormai abbandonato la fede fascista, rifiuta di mettere la sua firma sotto quello che non sa definire in altro modo che ricatto.
Tra l’altro c’era un non detto in quel referendum: mettendo la firma si andava prima a casa. Ma era un trucco. Dopo un anno e mezzo, maggio 1945, erano stati liberati solo 27 mila prigionieri. Ma anche dopo vennero rilasciati a rilento, mentre nei campi e nel Paese cresceva la convinzione che i governi non facessero abbastanza per riportare in Italia questa grande massa di «dimenticati».
Un’ombra che sfiora perfino il primo governo di Alcide De Gasperi. In vista del 2 giugno 1946, qualcuno pensò che fosse rischioso far votare tanta gente arrabbiata? Questa rabbia poteva finire nell’urna? Un comunicato del ministero della Guerra, aprile 1946, si presta a qualche dubbio: «Le condizioni morali dei prigionieri, il loro disorientamento politico (…) non possono che dare un valore molto aleatorio al loro voto». Lo stesso De Gasperi, in un’intervista, sostiene che i prigionieri «avrebbero bisogno di un congruo periodo di tempo per orientarsi, prima di dare la loro adesione all’uno o all’altro partito politico».
Il giorno dello storico voto ne mancavano ancora all’appello 260 mila, quasi la metà. Quanto avrebbero potuto incidere sul risultato? A conti fatti non molto, ma in quel momento i timori per un voto di protesta erano molto forti. Solo dopo l’estate si trovarono le navi necessarie per riportarli a casa, rabbiosi e invecchiati. «Ci rimandano Andrea a cose fatte», è l’amaro commento di uno dei fratelli Monteschi. La storia di quattro ragazzi che si incrocia con quella del nostro Paese.