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 2024  aprile 12 Venerdì calendario

Anna Cataldi raccontata da Jacaranda Caracciolo Falck

Sua madre Anna Cataldi amava dire di aver vissuto più vite. La prima negli anni sessanta, quando, ragazza di proverbiale bellezza, sposa l’imprenditore Giorgio Falck. Come si erano conosciuti?
«Mia madre era torinese con un padre che lavorava in un’azienda farmaceutica. Sognava una vita esotica, ma – racconta Jacaranda Caracciolo Falck – aveva una famiglia molto severa, quindi per evadere a un certo punto si è sposata con il suo migliore amico: lui si chiamava Dado e stava partendo per andare a fare il Politecnico a Losanna. Mia madre lo seguì. Una volta arrivati a Losanna, sebbene fosse la prima sera da sposati, Dado le dice che ha invitato un suo compagno di corso. Il compagno di corso era Giorgio Falck, che entra in casa e all’istante tra i due è un colpo di fulmine. In poche settimane lei lascia il marito, però la famiglia la mette al bando. Anche i genitori di Giorgio, molto cattolici, sono all’inizio contrari a questa unione, ma quando lei resta incinta del primo figlio si sposano. Il loro è stato un grande amore».
La fine del matrimonio è dolorosa e il tribunale assegna i figli a Falck.
«Credo che il loro sia stato un rapporto passionale e un legame fortissimo, hanno avuto due figli, mio fratello e mia sorella. In quell’epoca mia madre inizia una vita da jet set, mentre Giorgio preferiva la barca a vela. Un matrimonio, insomma, a maglie larghe, sebbene con un equilibrio, che tuttavia salta quando Giorgio – un grande playboy – scopre che non ero sua figlia. La separazione avviene in modo brutale perché mia mamma si divide da un uomo, che in quel momento, è rappresentativo di una delle famiglie industriali più emblematiche di Milano».
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Lei è figlia di Carlo Caracciolo, questa la causa del divorzio.
«A mia madre tocca uno stigma pesantissimo che si traduce in ripercussioni drammatiche: il tribunale le toglie i figli, me compresa, e ci assegna a Giorgio. All’inizio non ha diritto a quasi nulla dal punto di vista economico e soltanto dopo qualche tempo riesce a farsi affidare almeno me. Una cosa che oggi non avverrebbe più. Giorgio è stato durissimo, malgrado non fosse una persona cattiva».
Nel 1977 dopo il divorzio decide di andarsene in Africa. Lì inizia una nuova vita?
«Era un modo di reagire, una fuga che le ha permesso di tornare più forte. Una scelta davvero inusuale, perché mi ha portato con sé togliendomi da scuola, io avevo 5 anni e mi disse: “Andiamo a Khartum”. L’arrivo di notte in aeroporto in Sudan fu uno shock, era un universo completamente diverso da Milano, dove all’epoca i bambini andavano a messa al San Carlo e indossavano i loden. Per caso all’Hilton di Khartum incontrammo un amico di mia madre, Chicco Recchi, che in Africa aveva grandi cantieri di costruzioni, ci aiutò: a cominciare dalle cose semplici come il parmigiano e la pasta. Siamo restate un anno, durante il quale mia madre è diventata amica del grande fotografo Peter Beard, abbiamo anche attraversato il Mar Rosso a vela con un piccolo Sangermani di 13 metri».
È stata una jet setter girovaga, ne soffriva l’assenza?
«In verità il periodo mondanissimo tra Parigi, Gstaad e i balli Rothschild risale a prima della separazione. Dopo la sua vita è cambiata, mi portava con sé ovunque, non ho avuto mancanze particolari».
In Kenya scopre la figura della scrittrice danese Karen Blixen e se ne innamora.
«Durante quel soggiorno inizia a leggere i libri di Blixen e si invaghisce della storia di questa donna di frontiera e combattiva, vissuta in Africa, in cui si riconosce. Si entusiasma e decide di mettere insieme una sceneggiatura per un film sulla vita di Blixen».
È vero che barattò un orologio in oro di Bulgari pur di accaparrarsi i diritti per realizzare il film?
«Per natura era sempre pronta a mettersi in gioco. Se c’era bisogno di qualcosa poteva anche vendere i gioielli, quella volta lo fece per accaparrarsi i diritti. A lei piaceva l’America, così viaggiando tra New York e Los Angeles iniziò la prima stesura del film».
Che rapporti aveva con il mondo del cinema?
«Nessuno! Una totale scommessa. Prese decine di porte in faccia, le dicevano: “Signora, un film su una donna in Africa che viene cornificata dal marito e che poi ha un flirt con un amico non interessa a nessuno”».
«La mia Africa» ha vinto sette premi Oscar. Fu una soddisfazione economica?
«No, assolutamente. Ha venduto la sceneggiatura sottoscrivendo un meccanismo di partecipazione agli utili che, dedotte le spese e i costi, non le ha garantito molto».
Era molto bella, sapeva sedurre?
«Sì, era simpatica e assolutamente davvero seducente».
Negli anni Settanta è stata molto amica di Berlusconi, si continuavano a sentire?
«Di tanto in tanto. Hanno avuto una grande amicizia prima che lui iniziasse con le tv, hanno fatto dei viaggi insieme. Mia madre si era messa in testa di imparare l’inglese e sosteneva che anche lui dovesse, così partirono insieme per un corso di total immersion di inglese a Londra».
Lo ha mai votato?
«No (ride), mai, ma lo ha sempre trovato simpatico».
Che idee aveva in politica?
«Era dichiaratamente di sinistra. Sempre e comunque».
Berlusconi era un editore, lo stesso mestiere del terzo marito di sua madre, Urbano Cairo, oggi presidente e maggior azionista di Rcs. Si sposarono malgrado tanti anni di età di differenza. Cosa li aveva uniti?
«Si erano conosciuti perché mia madre doveva vendere una sua casa a Porto Cervo e chiese aiuto a Berlusconi. Ad occuparsene fu Urbano, che all’epoca era il giovane braccio destro del Cavaliere. Così iniziarono a frequentarsi, poi, un bel giorno, mia madre ci annunciò che era nato un amore. Sono stati una coppia con un bellissimo rapporto fino alla fine, e, forse, per la prima volta mia madre ha trovato un equilibrio».
La sua terza vita inizia nel 1993, all’indomani della perdita del figlio Giovanni. Come cambiò sua madre?
«La sua terza vita era iniziata qualche tempo prima, si era messa a scrivere per il settimanale Panorama, realizzando alcuni reportage da Sarajevo durante la guerra. La morte improvvisa di mio fratello ha cambiato tutto. Mia madre stravedeva per Giovanni: era la luce dei suoi occhi e lui era protettivo con lei. La perdita le spaccò il cuore».
Aveva coraggio o più incoscienza?
«Un misto di entrambe le cose. Certo aveva coraggio, trovava una carica di adrenalina nella sfida continua ai limiti del rischio. Questo suo lato si è accentuato dopo la morte di mio fratello: si sentiva meglio quando fronteggiava un dolore più grande del suo, rendendosi utile».
Nel 1998 il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, la nomina messaggera di pace. Trovò conforto occupandosi degli altri?
«Molto. Quell’esperienza l’ha cambiata, studiava e cercava di capire le ragioni dei conflitti. Ha partecipato a missioni in Africa e Asia. Riuscire ad inserirsi nel meccanismo degli aiuti umanitari con un ruolo di peso non era scontato per una donna nella sua posizione e della sua età».
Era ostinata, discutevate?
«Sì, tantissimo. Era litigiosa, ma finita la vampata non covava rancore. È la persona che mi ha insegnato di più come affrontare la vita».
Torinese di nascita, in cosa era rimasta sabauda?
«In poco. Aveva la capacità di restare con la schiena dritta, anche se la vita ha cercato di piegarla in tutti i modi».
Un ricordo indelebile?
«Mi ha fatto vivere esperienze incredibili e le sono molto grata. Sapeva essere buffa e il giorno della nascita di mio figlio Alessandro si presentò con i suoi amici Renzo Mongiardino e Dino Franzin. Come niente si misero a chiacchierare in sala parto, tanto che io rivolgendomi a lei dissi: “Mamma! Io sto partorendo”, e lei sbrigativa: “Mah Jacaranda, un minimo di convivialità!”»