Avvenire, 10 aprile 2024
L’acqua è un fallimento
Thames Water, la più grande società di servizi idrici del Regno Unito, è sull’orlo del fallimento. Era il 1989 quando l’allora primo ministro conservatore, Margaret Thatcher, portò in Parlamento la legge che, privatizzandola, ne cancellava il debito: 5 miliardi di sterline. Trentacinque anni dopo quella svolta, celebrata come esempio del capitalismo popolare che ha fatto crescere ed arricchire il Paese, l’azienda sta sprofondando in un buco di 14,7 miliardi.
Thames Water è un colosso dai piedi d’argilla. Ogni giorno gestisce 2,5 miliardi di litri di acqua potabile e 4,6 miliardi di litri di acque reflue. A Londra e nella Valle del Tamigi fornisce servizi a circa 16 milioni di persone: quasi un quarto della popolazione nazionale. Come è possibile, ci si chiede, che stia fallendo? Nel 1989 furono 2,5 milioni le persone che, attratte dalla réclame “You could be an H2Owner”, si buttarono nel mercato comprandone le azioni. I guadagni arrivarono e non furono neppure pochi. I dividendi distribuiti fino al 2017 superano i 7 miliardi. Il declino è cominciato durante la gestione della banca australiana Macquarie che nel 2007 l’acquistò dalla tedesca Rwe. In quegli anni il debito crebbe fino a dieci miliardi a causa, questa fu la motivazione ufficiale, delle spese effettuate per ristrutturare l’anti-quata rete idrica e fognaria del Tamigi: 31.600 chilometri di tubature di era vittoriana a tratti bucate o bloccate. È indubbio che la rete fosse un colabrodo ma molti denunciarono che quel debito fosse il risultato di manovre finanziarie sconsiderate fatte, a spese degli utenti, per elargire lauti dividendi agli azionisti e generosi prestiti agli altri partner della banca.
L’efficienza della rete, passata sette anni fa alla holding Kemble Water, non è migliorata. Secondo alcune stime le perdite di acqua potabile superano oggi i 630 milioni di litri al giorno. Non reggono neppure le fogne. Il municipio della capitale ha denunciato quantità abnormi di liquami dirottate da Thames Water nel Tamigi: se ne nel 2022 erano state contate 1.420 ore di sversamenti quelle registrate negli ultimi nove mesi del 2023 sono state 6.590. È così che la “storia liquida” di Londra, come il politico britannico John Elliot usava chiamare il fiume, è diventata una sorta di latrina. I livelli del batterio escherichia coli sono talmente alti da aver costretto i club di canottaggio a invitare gli atleti che si allenano sul Tamigi a non bagnarsi e proteggere le vesciche dall’acqua. L’inquinamento causato è costato all’azienda anche una salatissima multa emessa dall’Ofwat, l’autorità garante del settore idrico: quasi 74 milioni. Un aggravio non indifferente ai conti già in rosso.
L’attuale proprietà attuale di Thames Water non è britannica al cento per cento. Dietro la Kemble Water ci sono diversi investitori istituzionali stranieri. Il principale è un fondo pensione canadese. Il secondo, in termini di partecipazione, è il britannico Universities Superannuation Scheme. Seguono, in proporzioni diverse, operatori statunitensi, australiani, cinesi e arabi. È questa la cordata che ha ereditato il debito colossale e che, complice l’inflazione, lo ha visto crescere fino alla soglia del fallimento. L’allarme bancarotta scattò già la scorsa estate ma rientrò parzialmente quando gli investitori deliberarono un’iniezione da 750 milioni.
Era tuttavia già chiaro, allora, che non sarebbe bastata. La situazione è precipitata negli ultimi giorni. Gli investitori si sono rifiutati di riaprire i rubinetti dei finanziamenti portando la Kamble Water al default. Il “no” dei fondi istituzionali al salvataggio fa il paio con quello dell’Ofwat che si oppone al rincaro delle bollette (fino al 40%) prospettato come soluzione alla crisi. È muro contro muro. È in questo contesto che è maturata l’ipotesi di rinazionalizzazione (anche solo temporanea) dell’azienda che, tuttavia, il governo Tory di Rishi Sunak, innervosito dalla “vergognosa” leadership con cui è stata gestita la vicenda, si è affrettato a respingere. Il dibattito, però, è tutt’altro che esaurito. Alimentato dalla preoccupazione sullo stato di salute delle altre dieci aziende private (sei delle quali controllate da investitori con sede a Hong Kong, Ottawa e Kuala Lumpur) che gestiscono i servizi idrici di Galles e Inghilterra. L’Ofwat ha stimato che il debito complessivo accumulato ha raggiunto quota 60,6 miliardi.
È segno, ci si chiede, che la gestione privata dell’acqua non funziona? «Il modello di business di Thames Water – ha commentato Mathew Lawrence, direttore del think tank Common Wealth – rischia di crollare lasciando i cittadini a raccogliere i cocci». «Non basterà un cerotto – ha aggiunto – a guarire un sistema malato». Che rischia di aggravarsi di anno in anno a causa delle sfide poste dal cambiamento climatico. L’esperto non è l’unico a credere che l’azienda «debba essere riportata sotto il controllo statale, a tutela dell’acqua come bene pubblico, come avviene nella stragrande maggioranza dei Paesi del mondo». A spese di chi? Anche in questo caso, non c’è che una risposta: dei contribuenti