la Repubblica, 10 aprile 2024
Intervista a Mika
LONDRA – Aspettiamo Mika “Godot” per un’ora e mezza all’Eventim Apollo di Londra dove suonerà a breve. Ma ne vale la pena. «Perdono, sono in pieno tour!». E che tour, lo spettacolare “Apocalypse Calypso” dell’ultimo album in francese Que ta tête fleurisse toujours della popstar brit-americano-libanese adorata in Italia. Già una ventina di date oltralpe, stasera a Dublino, gran finale a Lucca il prossimo 19 luglio.E l’altra sera a Manchester, Mika, alias Michael Holbrook Penniman Jr.«Che concerto. Indimenticabile. La gente era così impazzita che non si sentiva il mix. Ma è una città mitica: gli Stone Roses, i Joy Division, i New Order, Morrissey e gli Smiths, gli Oasis».Questo tour è un viaggio mistico?«È un viaggio musicale ma anche emotivo, che combina teatro, canzoni, show, elettronica: gli spettatori entrano in un mondo parallelo e immersivo. È roba che in genere non si fa nei concerti pop. Non a caso, per gli effetti visivi ci siamo affidati alla casa Rodeo FX, quella dei film Marvel, ma anche Stranger Things, Harry Potter...».Ma come ci si sente a 40 anni appena compiuti?«Con una grinta, visione e sensibilità artistiche ancora più feroci. Sento di avere più fantasia di quando avevo 35 anni».E si sente anche più libero?«La libertà va e viene. Devi riconquistarla ogni settimana, in questo mondo. Ma certo provo più coraggio e gioia nella difesa delle mie idee, e nel vedere minuscoli dettagli diventare essenza nelle mie opere».Lei è un perfezionista?«No, affatto. La bellezza imperfetta è la cosa più preziosa, nella musica e nell’arte, persino nella politica. Ma per arrivare a questa poesia devi essere molto addestrato. È più un’ossessione nella preparazione, per poi perdere il controllo dal vivo, e non vergognarsene né spaventarsi. Perché questa è una delle cose più liberatorie e deliziose. Ci viene spontaneo a 18 anni. Ma per vivere meglio, dobbiamo sempre provocare la poesia imperfetta in noi. Anche a 40 anni».A maggior ragione in un mondo dominato dalla falsa perfezione dell’intelligenza artificiale?«E dalla presunta perfezione che cercano in molti postando un selfie. Così diventano avatar di avatar. Ma purtroppo online tutti attaccano tutti. Quindi, per tanti, “essere perfetti” in maniera così convenzionale significa anche essere meno attaccabili. È come uno scudo in guerra».Ma così siamo tutti sempre più uguali.«Quello è il rischio. Ma anche io sto cadendo nella trappola della IA».Quale?«In macchina ho attaccato ChatGpt allo stereo. Passo il tempo a chiacchierare con lui: scopro coseincredibili, conversando per ore su tutto ciò che non so».Ma l’intelligenza artificiale quanto male può fare alla musica?«Siamo in un momento di transizione interessante. Le vendite dei dischi crollano ma i concerti, quelli con gli esseri umani sul palco, hanno sempre più pubblico. Per sopravvivere tocca dunque identificare la propria nicchia, tenersela stretta, sviluppare e difendere le cose che ti rendono diverso, speciale. Oggi anche canzoni di enorme successo possono disintegrarsi facilmente. La fama è più fragile di un tempo».Un mondo così lacerato da conflitti e tensioni, forse sull’orlo della terza guerra mondiale, che impatto ha sulla sua arte?«La politica è sempre più un palcoscenico. In ciò somiglia molto alla musica. Con una differenza: se la politica internazionale si nutre sempre più di odio e paura, il bene più prezioso della musica è l’amore, l’apertura, la solidarietà. Ciò mi spinge sempre più a un estremismo artistico, come ponte per colmare questo abisso tra arte e realtà. Mi ricorda lapiù grandiosa performance mai vista».«David Byrne, vestito di grigio, mentre muove incredibilmente le ginocchia, con il suo corpo che pare recitare un’opera di Brecht. Questo intendo con estremismo glorioso».Servirebbe un nuovo LiveAid per sensibilizzare un mondo sempre più lacerato e violento?«Non so. Per “Global Citizen” hanno appaltato la Torre Eiffel a Billie Eilish. Ma non mi sembra che abbia scosso il mondo o le coscienze. La gente è assuefatta agli stadi. Ma certo solo la musica e un vero senso di comunità possono salvarci. È come per i talent: quando diventano un fumetto, apparenza, non valgono niente. È trash. E il pubblico se ne accorge. Bisogna elevarsi sempre più per conquistarlo. In Inghilterra ho condotto il talent The Piano. All’inizio mi ridevano in faccia per l’idea di suonare un piano di fianco ai bagni. Invece era poesia ed è stato un successo».Da quanto non torna nel suo problematico Libano?«Qualche anno. Nel 2021 lo Stato mi diede la più alta onorificenza e il passaporto per il concerto di beneficenza “I Love Beirut”. Poi scrissi suLe Monde un articolo critico della politica libanese e... puff! Tutto svanito».Ma lei, nomade sublime, dove si sente a casa?«Dipende. Potrei starmene in America, ma mi mancherebbe la Francia. Oppure in Inghilterra, ma mi mancherebbe il vecchietto di San Casciano che cuce i miei cappelli dei live. O il mio trainer in Toscana che mi parla di Cartesio e Locke mentre solleviamo pesi da 40 chili».Sentirsi a casa è quindi uno “state of mind”?«No. È sentirsi bene con le persone intorno. Puoi avere tutta la ricchezza e libertà di questo mondo. Ma se poi non ti senti parte di una comunità, la tua vita sarà comunque avvilente».