la Repubblica, 10 aprile 2024
Intervista a Isabella Santacroce
uattro anni di silenzio, nessuna intervista, un vuoto che è quasi un abisso dal qualeracconta di risalire con la scrittura. Isabella Santacroce rimane imprendibile, in realtà, anche quando si confessa attraverso parole cesellate.
Sembra di parlare con una sacerdotessa della letteratura, l’unica che crede ancora che la parola letteraria sia sacra mentre il mondo intorno tritura tutto senza più gerarchie. Lei no, preferisce vie esoteriche, scrive un libro che s’intitola Magnificat Amour (il Saggiatore), sospeso tra dannazione e riscatto, peccato e purezza. Una polifonia di personaggi: miss cinema, zii metafonisti, poeti alcolizzati, suore, miliardari viscidi e cadenti. E al centro due cugine, una bellissima, l’altra “uno scarabocchio”, una voluttuosa, l’altra illibata. Un plot incasinato: la vita. Per la prima volta parti esplicitamente autobiografiche.
Parliamo via mail a più riprese perché dice che non riesce ad ascoltare la sua voce dopo tanto isolamento. «Sono stati anni dickinsoniani, anni di esistenza claustrale, ma per me la solitudine è uno stato di grazia».
Perché questa necessità di vivere la scrittura in modo assoluto?
«Come Cristina Campo, sono convinta che le cose del mondo visibile siano meno numerose di quelle del mondo invisibile. Io mi sento un tramite, e quando scrivo mi pongo in una dimensione medianica.
Magnificat Amour l’ho scritto tenendo accanto una candela accesa, era il mio indicatore.
Iniziavo nel pomeriggio arrivando spesso all’alba.
Trascorrevo con lui anche tredici ore. A volte andavo a dormire e poi ritornavo quasi lo sentissi chiamarmi».
Sembra la descrizione di una pratica sciamanica.
«Non proprio. Sin dall’antichità alla fiamma della candela, oltre all’effetto di produrre luce, veniva assegnato un ruolo di protezione divina. Magnificat Amour vive nella dimensione del sacro, che io considero la somma degli estremi, dove il santo e il peccatore convivono. Entrambi sono espressione dell’oltrepassamento del limite».
Non è un’idea di letteratura anacronistica?
«Per me la scrittura è un continuo misurarmi con l’assoluto. La letteratura è altezza, e richiede altezza.
Scrivere per me non è una passione, ma una consacrazione».
La trasgressione è andare contro corrente?
«L’unica risposta giusta l’ho trovata nel Tieste di Seneca: “Un dio vi getta, povere cose umane, in un turbine rapinoso”. Credo che noi tutti siamo in quel turbine rapinoso».
Quando ha esordito con“Fluo”, a metà anni Novanta, è stata avvicinata agli scrittori “cannibali”.
«È stato l’ultimo movimento letterario italiano, e sono orgogliosa di averlo condiviso con grandi autori come Aldo Nove, Tiziano Scarpa e Niccolò Ammaniti. Ho ricordi molto belli della mia amicizia con Aldo e Niccolò. La prima volta che ci siamo incontrati Aldo stava regalando a tutti delle caramelle mentre Niccolò parlava di film horror».
Negli ultimi anni è un po’ uscita dai riflettori. Si sente
abbandonata, fraintesa dalla critica?
«No, per mia scelta ho pubblicato il mio penultimo libro,La Divina, con la mia casa editrice in edizione limitata e numerata (prezzo 200 euro a copia, ndr ).L’ho presentato una sola volta all’università di Tor Vergata di Roma durante una giornata di studio sulla mia ricerca letteraria. Avevo bisogno di quiete, nessun ufficio stampa, e nonostante questo l’interessenon è mancato. Da anni per mia scelta non rilascio interviste. Ne hodiverse che attendono da tempo risposta».
Come passa le sue giornate, dove vive?
«Prima alternavo la solitudine vissuta durante la scrittura al caos della folla. Isolamento e poi il suo contrario. Sono da sempre fuori dalle vie di mezzo. Adesso non so, devo ancora capire di che cosa ho bisogno, dove sono arrivata. Vivo principalmente a Riccione, mio paese di nascita, che sa come me passare dal silenzio al frastuono».
Niente più maschere fiabesche o sado-dark?
«Le maschere appartengono alla scrittura della mia trilogia
Desdemona Undicesima, poi diventato anche il nome della mia casa editrice».
Ha avuto un’educazione cattolica?
«Ho avuto l’immensa fortuna di avere una suora indimenticabile come maestra alle scuole elementari. Si chiamava suor Maria, aveva poco più di vent’anni. È stata lei a insegnarmi a scrivere, e scrivendo ho trovato la mia voce. L’alfabeto mi ha subito affascinato, ne riempivo quaderni, dalla lettera A alla Z, un rito magico. Anni fa dopo una lunga ricerca sono riuscita a parlare con suor Maria al telefono, si ricordava ancora di me, mi ha salutato dicendo “sei la mia Isabellina”».
Crede in Dio?
«Sì, credo in Dio, credo solo nell’incredibile».
I suoi genitori sono cattolici, come prendono le sue provocazioni?
«Sono cattolici, devo loro tanto, perché sono stata cresciuta da persone che amano l’arte, la musica, la natura. Non mi penso provocatoria, sovversiva sì. Sono orgogliosi di questo scrittore che sono, e soprattutto del fatto che molti ragazzi ogni anno si laureano con una tesi sulla mia scrittura (Santacroce preferisce essere chiamata scrittore, ndr)».
C’è anche cattiveria in questo romanzo, le appartiene?
«La conosco ma non mi appartiene, però ho una bontà che si trasforma da lacrima in fucile. Non sono vendicativa e la mia rabbia somiglia alla furia, sono stata gelosa per insicurezza, ora non più».
Ricorre un libro salvifico: “Gita al faro” di Virginia Woolf.
«È il libro che più amava mia nonna. Per creare la nonna di Lucrezia, una delle protagoniste, mi sono molto ispirata a lei. Era figlia di nobili, un’esteta forte e delicata, i capelli rossi sempre impeccabili, elegante, una figura poetica che spesso mi appare nei sogni».
Il suo riferimento continua ad essere Emily Dickinson?
«Spero lo sia per sempre. È ovunque nella mia casa. Il suo ritratto, anche sopra il letto. Nel suo volto leggo queste sue parole: “In lutto mi occultavo tra i bambini come chi ha perduto un regno, unico principe spodestato”».