La Stampa, 10 aprile 2024
Il Mondiale censurato (con intervista a Elena Schiavo)
Immaginate uno stadio pieno, più che pieno: 110 mila persone, è l’Azteca, il campo di Italia-Germania 4-3, quello della mano di Dio, Maradona contro l’Inghilterra, ma siamo nel 1971 e la folla è lì per guardare calcio femminile. Difficile visualizzare quello che sembra impossibile da credere, anche se è semplicissimo capire che cosa è successo dopo: discriminazione, pregiudizio, condizionamento culturale e altri cinquant’anni per rivedere una scena simile.
Ora un film racconta l’estate in cui il progresso poteva fare uno scatto in avanti e invece è rimasto lì, strozzato nel bel mezzo di una festa, sgonfiato dal fastidio, travolto da una morale posticcia che ancora circola subdola. Il Pordenone Docs Festival, domani, presenta per la prima volta in Italia Copa 71 e mette insieme una cordata che lo distribuisca con l’aiuto di Fandango, Ultimo uomo, CineAgenzia e Voce Donna, circuiti diversi per una visione globale dedicata a un Mondiale dimenticato e oggi rimesso in circolo: racconta molto più di quello che si vorrebbe ascoltare. Sei nazionali, uno sponsor, una tv che si fa garante del pienone e il Sudamerica che decide di partecipare a quella che lì per lì pare una rivoluzione. Non ci sono gli Usa che pure sarebbero diventati i promotori del calcio femminile come lo conosciamo, però c’è Brandi Chastain e si domanda: «Come è potuto succedere?». Lei, in teoria, sarebbe la donna che ha lasciato il segno sul primo torneo femminile riconosciuto e da sempre la storia delle donne del pallone parte, con Chastain, dal 1991, da una signora che si leva la maglia e resta in bra. In reggiseno sportivo senza marchio sopra, quello, con un baffo, sarebbe arrivato dopo, tutto sarebbe successo dopo: l’evoluzione in Nord America, il Nord Europa che si sveglia nei Duemila e i numeri che crescono, le calciatrici che aumentano, il movimento che si forma e si espande fino al 2013, edizione Mondiale in cui torna a esistere, dopo molto tempo, anche l’Italia, edizione in cui gli ascolti si notano e le richieste di stipendi equi si fanno precise, il professionismo diventa reale. Un lento riposizionamento spacciato per continuità, invece no. È una rinascita dopo un’imboscata. Quel Mondiale, rivestito poi di estemporaneità hippy, esisteva senza una federazione internazionale a sostenerlo. Era già noto, ma quasi come momento di folklore. Con Copa 71 le voci di tante protagoniste restituiscono il rumore dei piedi battuti sugli spalti, del tifo, dell’entusiasmo, del livello di un calcio che era tanta atletica e poca tecnica, ma non faceva sconti e interessava al pubblico.
La storia riemerge, si è già affacciata al presente nell’ultimo decennio, solo che erano sempre pezzi di una strana euforia, riassemblati come sbronza collettiva. Copa 71 è un docu film, ricerca la realtà per definizione, espone lucida memoria che si fa pure faticosa nelle parole delle inglesi: «Possibile che ci fosse la fila per guardarci e al ritorno a casa nessuno ad aspettarci?». Le danesi sono ancora più esterrefatte, gli anni non placano lo stupore: «Avevamo vinto un Mondiale che gli uomini non avevano neppure accarezzato e ci hanno fatte sparire». Eppure venivano da una carriera comune: Gill che diventa Billy, Nicole che si fa passare per Nic. Ragazze costrette a trovarsi un nome da maschio, ragazze a cui spariscono i cambi negli spogliatoi, ragazze insultate perché si allenano a tirare punizioni. Conoscevano bene la società in cui erano piantate, però in quelle poche stagioni ribelli era successo qualcosa ed era naturale supporre di andare avanti, di muoversi a partire dai risultati toccati. Pioniere, anzi «pionierissime» come ripetono le italiane nel film, per nulla preparate a essere accantonate, private della possibilità di influenzare la generazioni successive, di firmare un cambiamento. Sapevano di rappresentare una svolta, raccontano come e perché la strada costruita è stata fatta saltare per aria.
Due anni prima dell’avventura in Messico, degli imprenditori torinesi intuiscono le potenzialità di un torneo al femminile e si associano alla Martini e Rossi, che poi resta come marchio Mondiale, per una competizione a inviti. Si gioca una sorta di Coppa Europa, allargata poi nel 1970 e gli esperimenti fanno da base per il Mondiale clandestino in grado di mostrare un mondo sommerso. Non solo il pallone delle donne, ma l’indipendenza, la determinazione, la fisicità, l’ovvia contrapposizione a stereotipo già logori allora eppure in grado di rimpolparsi proprio a partire dallo sdegno per quel successo. Il Mondiale del 1971 era un’ipotesi, nessuno supponeva avrebbe conquistato la gente e il seguito ha fatto paura. Quando si dice la caccia alle streghe non è tanto per dire, è successo, ripetutamente e non ne siamo ancora completamente fuori per cui uno sguardo a Copa 71 può essere utile. —
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Intervista a Elena Schiavo
Elena Schiavo non può stare tranquilla, neanche a 76 anni. La vita non l’ha trattata benissimo e lei ha risposto prendendola a calci, lo fa ancora e si trova da sola la definizione perfetta «baruffante». Lo ripete di continuo, consapevole che la sua indole l’ha portata a essere la capitana di una splendida nazionale scomparsa e pure il fantasma di un tempo mai vissuto, sottratto.
In Copa 71 viene definita dalle messicane «molto cattiva».
«Ho menato senza un domani in quella semifinale che non potevamo vincere. Due gol annullati, l’arbitro fischiava solo contro. La Danimarca era in finale e solo la sfida con il Messico avrebbe garantito gli ascolti che la tv pretendeva. Avevano pagato loro il torneo e verrebbe da dire che porcata, invece dico bravi perché hanno creduto a un’idea. Ci hanno dato visibilità».
Ve la siete presa, fino a 110 mila spettatori a partita.
«Li ho mandati a fan sapete dove tutti e 110 mila, però che brividi. Li ho insultati alla fine, frustrata dalla sconfitta, ma li ho sentiti per tutto il tempo. Mi ricordo ancora le voci dagli spogliatoi e l’energia. Sognavamo di portarcela a casa. L’anno prima si era giocata Italia-Danimarca a Torino, ho spedito un rigore in curva Mi hanno dato della puttana in 60 mila. Però non male vero? 60 mila erano venuti a vederci».
Non male. Perché vi siete fermate lì?
«Volevano disfarsi di noi. Era l’Italia della democrazia cristiana e noi passavamo per libertine senza freni. Che idea. Io facevo vita da atleta, ma pensa avessero saputo che in vacanza andavo da nudista a Rovigno. Neanche la partita dopo mi facevano giocare. L’Italia era bigotta, lasciarci esistere significava mettere in discussione il ruolo della donna».
Che era?
«Timorata, sottomessa. Se gli uomini sostenevano che il calcio non era roba per noi doveva essere così. Ci hanno affiliate alla federazione maschile per controllarci e smantellarci. Siamo diventate la palle al piede, ci hanno rese dilettanti prima che potessimo dimostrare di muovere dei soldi. Mai avuto l’onore di giocare, che so, un’amichevole prima di una partita maschile. Dicevano che rovinavamo i campi, ci spedivano su terreni gelati e spelacchiati, a cambiarci sulle gradinate con gli spioni. Ci hanno umiliate».
Eppure lei ha vissuto momenti storici. Passa per essere la prima che ha firmato un contratto da professionista, nel 1970 alla Real Torino.
«Già, i fratelli Rambaudi, avevano capito tutto. Io stavo alla Roma, mi aveva segnalato l’allenatore di Arese perché io pure venivo dal mezzofondo, facevo gli 800 metri. Mi chiamano e io rispondo: "Bravi, ma di che campo a Torino?". Mi hanno assunta come dipendente, avevano una ditta di mobili. Allora arrivavano anche le straniere, c’era fermento».
Perché chi ha intuito il potenziale si è tirato indietro?
«C’è lo stesso rischio anche oggi. Sono professioniste, finalmente, ma a tempo. E poi? Se le tv non pagano? Se gli sponsor non entrano? Glielo mettono in conto e dicono che il sistema non si sostiene, ma sto sistema lo si vuole creare oppure no? Allora non sono stati neanche a vedere. Si ragionava alla Don Camillo e Peppone, io ero quella uscita dalla famiglia comunista, la baruffante. Un personaggio sfruttato fino a che andava bene a loro, poi demonizzato».
Come?
«Hanno fatto così con tutte. C’era una danese, fortissima, che fumava la pipa. Vargas, messicana, la chiamavano Pelé, talento come poi non se ne sarebbero visti per molto, dicevano che mostrava le gambe».
Lei in quel Mondiale è stata battezzata «miglior giocatrice al mondo».
«Ero aggressiva, in Messico piaceva. Qui in Italia meno, andava di moda la chiesa, mi volevano sposata a fare figli. Ci volevano tutte così e per ridurci a questo ci toglievano ogni possibilità di essere altro. Altrimenti eri un’invertita e se invece facevi carriera eri una puttana. Ribellarsi sì, ma prima alla mamma, poi alla società, poi al sistema... ho chiuso con un infortunio e 8 giornate di squalifica. Non vedevano l’ora di disfarsi di me».
Che aveva fatto?
«Atteggiamenti violenti, insulti. Mi facevo rispettare, poi ha ceduto il menisco e ho pagato tre milioni di tasca mia per l’intervento. Sono finita a lavorare in comune».
Che cosa ricorda della Torino Anni Settanta?
«Sono arrivata a Porta Palazzo, io ragazzetta di provincia. Mi sono detta subito devi svegliarti fuori, raddrizza gli occhi. Non facile. Ho visto cose splendide e bruttissime, i primi drogati per strada, però anche un negozio di vinili a San Carlo dove mi pareva di stare al centro del mondo. Una famiglia di Moncalieri mi ha praticamente adottata, con me Torino è stata generosa pur con tutti i momenti duri. È una città a cui devi dare per avere, anche se io a buttarmi sempre con passione mi sono pure rovinata».
Errore più grande?
«Amichevole a Montecatini, non pagata, senza rimborso spese, per il piacere di giocare a pallone. Mi sono fatta i crociati, l’Oscar della stupidaggine. Allora li operavano solo in Francia e con quei ferri da tirare che ti sfiancavano dal dolore».
Risata più fragorosa?
«Tornavamo da una trasferta, ci fermiamo in un ristorante torinese, corso Re Umberto, ci andavamo a mangiare i risotti, ma quella sera ci siamo entrate in ciabatte, con le borse da calcio. Ci hanno messo alla porta».
Oggi guarda il calcio femminile?
«Non sono più fisico e potenza come eravamo noi. Sara Gama l’ho notata subito, mia nipote praticamente: triestina, terzino con una grande capigliatura e una mamma tifosissima. Ecco, nei Settanta la mamma tifosa era impensabile. Ti faceva inseguire dal prete».