La Stampa, 10 aprile 2024
Caccia a 20 miliardi
Per comprendere le dimensioni del disastro contabile nel quale è finito il governo Meloni basta fare qualche telefonata ai funzionari che hanno contribuito a fare gli ultimi calcoli sui costi dei Superbonus edilizi. Conti che – a leggerli bene – smontano almeno in parte la narrazione secondo la quale tutta la responsabilità è di chi l’ha preceduto. Ieri in conferenza stampa Giancarlo Giorgetti è apparso piuttosto nervoso. Ha ricordato di aver lanciato l’allarme in tempi non sospetti, ed è vero: correva il 16 febbraio dell’anno scorso. Eppure nonostante il tentativo di mettere la parola fine a quell’enorme spreco di soldi, fra una proroga e l’altra del Parlamento le agevolazioni per la ristrutturazione delle case sono costate nel solo 2023 novanta miliardi. Molto più di dell’anno precedente, il 40 per cento del totale.
La ragione ufficiale della decisione di Tesoro e Palazzo Chigi di non presentare il quadro programmatico per il 2025 nel Documento di economia e finanza è legittima. Poiché siamo in una fase transitoria delle nuove regole europee, Giorgetti ha deciso di prendere tutto il tempo necessario, in teoria fino al 20 settembre. Ed è vera la circostanza secondo la quale anche altri governi hanno rinviato le decisioni sulle scelte di politica economica all’autunno. Ma accadde a esecutivi dimissionari (Monti, Gentiloni e Draghi) o in gravissima emergenza, come il Conte bis durante la pandemia. Dietro alle attenuanti c’è in ogni caso una realtà che la maggioranza in campagna elettorale non può raccontare fino in fondo: la premier non sa da che parte iniziare per rimettere in carreggiata i conti. Chi di recente è entrato a Palazzo Chigi ha incontrato volti piuttosto corrucciati. Dire la verità a due mesi dal voto non si può, e le discussioni sul da farsi dopo l’estate producono severi mal di testa.
Basta fare i conti su ciò che sarebbe necessario per la sola conferma delle maggiori spese decise quest’anno, quelle fin qui finanziate una tantum e che hanno garantito a milioni di lavoratori dipendenti fino a cento euro in più in busta paga. La conferma della decontribuzione per i redditi fino a 35mila euro costa dieci miliardi. Per prorogare l’unificazione delle prime due aliquote Irpef servono altri quattro miliardi. Poi ci sono il credito di imposta a favore delle imprese delle zone economiche speciali (1,8 miliardi), il taglio dell’aliquota sui premi di produttività e il welfare aziendale (830 milioni), la riduzione del canone Rai (430 milioni), delle tasse per le mamme con due figli, un altro mezzo miliardo. Se a questo conto sommario si aggiunge il minimo indispensabile per le spese cosiddette indifferibili (su tutte il rifinanziamento delle missioni all’estero), si parte da una base di venti miliardi di euro. Nel Documento di economia e finanza il deficit tendenziale a legislazione vigente è del 4,3 per cento. Senza nuove tasse o tagli di spesa, siamo già un punto sopra.
Il 2025 sarà il primo anno in cui entreranno in vigore le regole del nuovo Patto di Stabilità. Sulla carta il governo dovrebbe aggiustare i conti di almeno dieci miliardi, ma potrà contare quasi certamente sulla clemenza di una Commissione europea dimissionaria, che non chiederà all’Italia una manovra correttiva in corso d’anno. Prima dell’esplodere del bubbone Superbonus, lo scenario dell’anno elettorale europeo combinato al probabile calo dei tassi di interesse (accadrà a giugno) prometteva per la premier un anno in discesa. I numeri «devastanti» del 2023 (copyright Giorgetti) hanno cambiato il quadro. «Ora Meloni sta in una tempesta perfetta fatta di vincoli di bilancio e Recovery Plan a rilento», riassume una fonte tecnica che chiede di non essere citata. La polemica di queste ore fra Giorgetti e il commissario Paolo Gentiloni sui tempi entro i quali realizzare il Piano dimostra che quella resta l’unica ancora di salvataggio alla quale aggrapparsi. La situazione è tale che nelle conversazioni di palazzo è riapparso il fantasma di un governo tecnico, magari di nuovo a guida Draghi. Suggestioni, niente di più. Una cosa è certa: nessuno sa come Meloni se la caverà in autunno, se non vestendo i panni della statista e andando in Parlamento a dire l’amara verità. Per il momento ciò che preoccupa Palazzo Chigi è evitare al decreto che mette la parola fine ai Superbonus lo stesso destino di un anno fa, quando Giorgetti andò in conferenza stampa a denunciare «una politica scellerata ideata per creare consenso». Non sapeva ancora che quella politica l’avrebbe attuata per un altro anno la sua stessa maggioranza di governo. —