la Repubblica, 10 aprile 2024
La storia d’Italia ha due volti di donna
Avolte un libro ti spinge a immetterti in un’avventura che riesce ad acchiapparti in modo perentorio. Lo cominci e cadi in un flusso inarrestabile. È come se la trama, con la sua forza d’urto, ti proponesse nodi umani riconoscibili in maniera straziante. Di tanto in tanto cerchi un appiglio poiché rischi di farti del male, nel senso che percepisci in maniera troppo intensa le figure che ti s’incollano addosso, con una specie d’effetto claustrofobico.
Produce tutto ciò la lettura di un grande romanzo, eI giorni di Vetro lo è, in quanto si dimostra capace di tessere un rapporto ideale tra i destini minuti delle persone e la Storia con tanto di maiuscola, cioè quella grondante di vita, morte, amor patrio, stragi, assembramenti, sangue, folla, congiure... Il nesso può far pensare a Elsa Morante o addirittura a Manzoni, senza voler azzardare confronti assurdi e smodati, ma restringendo il giudizio a un solo aspetto del testo, cioè alla sua abilità nel focalizzare il bilanciamento tra il pubblico e il privato, la potenza dello sfondo e lo scavo negli individui.
I giorni di Vetro è appena uscito per Einaudi Stile libero e riceverà di sicuro molti applausi, essendo un’operazione di sostanza che sorprende per maturità e spessore. Lo firma Nicoletta Verna, che nel 2021 esordì con Il valore affettivo, accolto da vari premi. Nata nel ’76 a Forlì, Verna vive a Firenze, e non a caso i luoghi de I giorni di Vetro, esplorati nell’arco della dittatura mussoliniana, sono quelli romagnoli e toscani a lei familiari.
Con questo viaggio, lungo 444 pagine, Verna sembra lanciarci una sfida ambiziosissima. È così esatta e pura nelle descrizioni e nei sondaggi psicologici, così credibile nei dialoghi, così lucida e acuta, da definirsi autrice in senso classico. Controlla il timone dei caratteri, li immerge in un affresco di vastità poderosa e ne tiene le fila all’interno di un contesto rutilante, tra paesaggi di massa, eccidi, assalti, attentati e cospirazioni. Materiali difficili da gestire, eppure lei li organizza con piglio navigato. Diciamo che questo romanzone ti arrovella e non ti lascia in pace. Ha un fuoco ottocentesco e un carico emotivo estremo, e il suo confronto con l’estetica e la follia del fascismo è un dato oggi attualissimo. Farà parlare di sé.
Sono due le protagoniste, Redenta e Iris, le cui vicende avanzano su binari paralleli fino a un punto d’innesto. Entrambe sono schiacciate da violenze sessiste e fasciste. Entrambe subiscono sopraffazioni nutrite dal Ventennio, dal secondo conflitto mondiale e da prepotenze maschili infami. Entrambe cercano vie di fuga e non perdono fiducia nel riscatto. Prima di farle incontrare, Verna ce le fa conoscere singolarmente. Redenta ha una gamba matta lasciatale dalla polio. Viene al mondo a Castrocaro nel giorno del delitto Matteotti (quindi esattamente un secolo fa), all’alba del totalitarismo instaurato da Mussolini. Hanno preceduto lasua nascita una serie di fratelli morti che le rimarranno accanto come fantasmi protettivi. Sua madre è ruvida e fumantina, mentre suo padre s’inchina al Duce con venerazione ottusa. È un tipo che sparisce, evapora e ricompare. A un tratto scappa in una guerresca campagna africana, dove si macchia di misfatti accanto a Vetro,gerarca fascista il cui nome deriva da un occhio vitreo. A lui, belva sadica, lo lega una complicità sanguinaria. La nonna di Redenta, Fafina, raccoglie nugoli di bastardi, e tra loro c’è Bruno, con cui Redenta s’intreccia nell’infanzia come a un fratello-amante. Avranno sempre una relazione viscerale, analoga a quella che legaHeathcliff e Catherine in Cime tempestose.
Redenta sembra muta o scema, eppure coglie tutto. Iris è altro: figlia di una maestra che conquista il borgo di Tavolicci con le sue lezioni ariose, è un’anima coltivata che affronta la lotta entrando come partigiana nel gruppo guidato da Diaz, che poi non è altri che Bruno riciclatosi nella Resistenza.
Redenta e Iris si narrano in prima persona e i loro linguaggi s’avvicendano con spiccate differenze di stile. Questo divario fra i due registri linguistici è una delle virtù più magnetiche della prosa. Redenta è popolare, dialettale e sghemba. Usa parole come braghira, gazzamaia, sgumbiato, strolgare, pirullarsi, sgarbonare scapuzzare, rapare (su per la stradina), gnolare… Iris è corretta e nitida. È la coscienza di una lingua oggettiva. È l’avvento del progresso e il barlume di una consapevolezza femminista.
Sono due i maschi che Redenta e Iris condividono. Uno è Bruno- Diaz, che lascia Castrocaro per darsi alla macchia. Redenta non smette di attenderne il ritorno e nel frattempo lui diviene per Iris un partner totalizzante: la notte, nei rifugi segreti della falange resistente, la coppia si miscela dentro lo stesso sacco a pelo. L’altro è il mostro Vetro, un concentrato di sadismo e iniquità. Sono impressionanti per vividezza le scene delle torture che infligge alle sue donne. Il padre di Redenta obbliga la figlia sciancata a sposarlo, e intanto Iris si trasforma nell’amante dell’aguzzino al solo scopo di sorprenderlo imbelle, a letto, così da poterlo uccidere, essendo Vetro il bersaglio dei rivoltosi, il demone per eccellenza e il portatore di ogni maleficio. Ma Vetro scopre la strategia di lei e Iris viene seviziata in pagine che ci restituiscono un delirio criminoso d’intollerabile ferocia. Sarà Redenta a salvarla in quadri d’andamento epico. L’eroina remissiva alza la testa grazie al coraggio infuso dall’altra femmina. La storia termina con dolore, ma in un clima di redenzione che chiude il cerchio e pareggia i conti. Sì, respiriamo.