Corriere della Sera, 10 aprile 2024
Le nuove regole di bilancio europee
Quando nel dicembre scorso i ministri finanziari dell’Unione europea negoziarono le nuove regole di debito e deficit, ciascuno di loro aveva sotto gli occhi un foglio. La Commissione europea lo aveva distribuito a tutti.
In quel documento, i tecnici di Bruxelles avevano fatto il conto delle dimensioni della manovra di bilancio che si sarebbe resa necessaria in ciascuna delle capitali per rispettare le nuove regole. È un po’ difficile dunque sostenere oggi che un governo non sarebbe in grado di indicare i suoi obiettivi di finanza pubblica, perché si è in attesa di ricevere indicazioni da Bruxelles.
Se lo si volesse fare, si potrebbe. La direzione di marcia e le grandezze di bilancio, almeno quelle, sono infatti note: l’Italia entrerà in giugno in una procedura europea per deficit eccessivo ed essa prevede che il Paese riduca il suo deficit pubblico «strutturale» – al netto delle oscillazioni dell’economia e delle misure di breve durata – di circa lo 0,3% del prodotto lordo all’anno. Il fatto che oggi in Europa si accetti l’aumento di alcune spese togliendolo dal computo – per esempio per la difesa – fa sì che il vincolo non sia molto stringente. In sostanza, in base alle richieste europee sul deficit, il governo deve trovare sei miliardi di solidi risparmi nella prossima legge di Bilancio. Si aggiungono poi altri elementi che contribuiscono a sminare il rapporto con Bruxelles nei prossimi mesi. Il primo è che in questa stagione di passaggio – verso nuove regole di bilancio, verso le elezioni europee, verso i tentativi di riconferma di Ursula von der Leyen – la Commissione europea non sembra infastidita dal fatto che il governo italiano scelga di prendere tempo: si direbbe che in Europa e sui mercati non interessi poi troppo che l’Italia per ora eviti di indicare i propri obiettivi, limitandosi a condividere delle ipotesi sulle tendenze inerziali dell’economia e della finanza pubblica.
L’altro fattore di relativa distensione è poi nel fatto che, quando poi in luglio la Commissione europea indicherà una traiettoria «auspicabile», potrebbe rinunciare a chiedere all’Italia miracoli immediati sul debito: per ora sta salendo per l’onda di piena di tutti i bonus-casa e a Bruxelles ci si potrebbe limitare a chiedere di programmare un calo che inizi in un futuro non troppo lontano.
Dunque in questo momento non siamo sottoposti a diktat europei o dei mercati. Non siamo sospettati di falsificare i conti o di nascondere chissà quali mance elettorali. Né incombe su di noi un conto alla rovescia dall’esterno del Paese. Il problema è tutto il resto: non il rapporto dell’Italia con Bruxelles o con la City di Londra, ma con se stessa. Più difficile che trovare i sei miliardi di risparmi previsti dal nuovo patto di Stabilità sarà infatti trovare, in parallelo, i 19 miliardi che servono per riconfermare tutti gli sgravi fiscali e contributivi che per ora sono stati decisi e finanziati per il solo 2024; in questo i tagli di tasse varati navigando a vista, con l’orizzonte di un unico anno, ricordano quello che fino al 2019 erano le clausole «automatiche» di aumento dell’Iva che in teoria minacciavano sempre di scattare dal primo gennaio seguente (poi in realtà sempre disinnescate): tattiche per far sembrare più solidi i conti negli anni futuri, sui quali invece sono destinati a pesare impegni politici già presi dal governo.
Altro tema che l’Italia dovrà definire con se stessa è poi quello dei bonus immobiliari. Giustamente il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti li ha definiti un «disastro», ma su di essi continua a mancare un’assunzione di comune responsabilità dell’intera classe politica. Tutti i principali partiti che hanno governato in questi anni li hanno voluti. Li ha voluti l’intero centro-sinistra ai tempi di Giuseppe Conte. Sia centro-destra e centro-sinistra in maggioranza che Fratelli d’Italia all’opposizione hanno poi fieramente protestato nel 2021 e 2022, quando Mario Draghi e Daniele Franco cercavano di fermarli. Infine il governo e la maggioranza attuali per un anno e mezzo hanno lasciato che il Superbonus continuasse a gonfiare il deficit, crivellando di scappatoie i decreti che avrebbero dovuto determinare una stretta.
La responsabilità politica dunque è ben distribuita. Eppure in troppi preferiscono ora usare il «disastro» del Superbonus come un oggetto contundente da usare contro gli avversari politici del momento o contro i funzionari del ministero dell’Economia, magari sperando di ammorbidirli in vista delle prossime scelte difficili. Perché il punto in fondo non è il passato con i suoi errori, ma il futuro. Anche se si confermassero le previsioni leggermente ottimistiche pubblicate ieri dal governo, i nodi dell’economia stanno ormai venendo al pettine. L’Italia fatica a crescere senza generare sempre nuovo debito pubblico; fatica a realizzare il Piano di ripresa; fatica maledettamente a contenere le dilaganti controriforme che seguono ogni riforma: Valerio De Molli di Ambrosetti stima per esempio che la produttività dell’amministrazione pubblica in questi ultimi tre anni sia scesa, non salita.
Aver rinviato la scelta degli obiettivi di bilancio può dare tempo al governo senza innescare troppi contraccolpi. Ma alla fine, nella storia di questi anni, sarà una nota a piè di pagina.