La Stampa, 10 aprile 2024
Il romanzo non deve morire
«In Francia si sente spesso ripetere che il romanzo sta morendo, che il romanzo è morto», scrive Simone de Beauvoir in Vecchi e nuovi eroi, un intervento del 1947. Già nel dopoguerra erano infatti moltissimi a pensare che il vero romanzo non facesse più parte della produzione letteraria francese.Erano alle spalle i grandi classici dell’Ottocento che avevano fatto scuola e reso immortale la propria fama nella letteratura europea. Eppure, nota De Beauvoir, le librerie continuavano a essere piene di libri che venivano classificati come “romanzi” e le persone continuavano a comprarli e a leggerli.Per Joseph Bottum, il romanzo riempie gli scaffali delle librerie di tutto il mondo, ma il suo “declino”, se non la sua morte, «riflette una nuova crisi nata dal crescente fallimento della nostra cultura e dai suoi dubbi terminali sui propri stessi progressi».Dieci anni fa, lo scrittore e giornalista, Will Self teneva una lettura pubblica dal titolo Il romanzo è morto (questa volta sul serio), dove diceva che il romanzo come forma letteraria sarebbe dovuto morire con Hemingway e Fitzgerald. Invece si era trascinato per altri tre quarti di secolo.Le constatazioni senza appello di entrambi e di molti altri chiamano in causa la crisi della cultura e della letteratura occidentale, della sua tenuta nei tempi che verranno, dei suoi tracolli e le sue incapacità. In questa ottica il romanzo come organismo complesso e complessivo non può più esistere, non ha le condizioni per essere scritto.Ma se il romanzo è morto, vuol dire che la parola “romanzo” oggi viene utilizzata per definire qualcosa che in realtà ha solo a che fare coi fantasmi della fu letteratura e li scimmiotta malamente nel presente. Si tratta quindi anche di un discorso di “dignità": le forme contemporanee non sono degne di essere chiamate romanzo perché hanno perso in parte o del tutto il legame con quello che il romanzo dovrebbe essere. Sono finite le grandi storie, i grandi personaggi e restano le minutaglie, le piccolezze.Molti sono gli articoli che hanno passato in rassegna De Lillo, Roth, Amis e hanno stilato le liste di chi si è avvicinato al grande romanzo, di chi proprio no, di chi è riuscito in un’opera ma ha fallito nelle altre, di chi ricorderemo nei secoli a venire, di chi verrà di certo spazzato via dal tempo.Non solo critici e studiosi di letteratura ma anche giornalisti e scrittori si passano il testimone ogni due o tre anni per farci sapere che il romanzo è passato a miglior vita, una constatazione di decesso ricorsiva, ciclica. Spostando, come fa De Beauvoir, lo sguardo dall’oggetto al processo si nota che, al di là del constatare la morte del romanzo, risulta interessante la constatazione stessa che torna, che appartiene a più di un’era e a più di una comunità di critici e scrittori, nella maggior parte, va detto, uomini.A cosa serve parlare di morte del romanzo, ogni dieci o quindici anni, a proteggerlo, a criticarlo, a rimpiangerlo? Forse tutte queste cose insieme.Il rito funebre che si svolge pubblicamente attraverso articoli e saggi, anima gli spiriti di chi vorrebbe rientrare in quel criterio e difendere il proprio post-romanzismo, di chi ci tiene a fare del proprio canone personale una chiave di lettura oggettiva della letteratura mondiale, di chi scuote il tappeto del dibattito sperando che gli scrittori, impegnati a calpestarlo mentre sorseggiano un Martini, si risveglino e tornino a interrogarsi sulla letteratura, piuttosto che sulle vendite, le recensioni sui giornali e le convocazioni ai premi. Quante volte in Italia, dove il legame con la letteratura del dopoguerra e la sua produzione strabiliante, fortissima e variegata ha creato dei riferimenti difficili a cui rapportarsi, vengono fatti nomi come quelli di Moravia, Pasolini, Morante, Ortese, Ginzburg, Pavese, Calvino per definirli inarrivabili e intoccabili, talmente impossibili da avvicinare che sarebbe meglio smettere di chiamarsi scrittori o scrittrici per trovare nuove parole con cui definirsi. (...)Oggi vari e importanti intellettuali hanno dichiarato che non leggono la narrativa pubblicata in Italia, quella prodotta dai viventi. Ci hanno anche tenuto, in alcuni casi, a sottolineare che forse qualche vivente lo leggono, ma solo se maschio. Per le donne non c’è proprio speranza, loro non l’hanno mai scritto il grande romanzo, figuriamoci ora cosa possono fare (poverette!). Molti di questi pregiudizi risultano ridicoli, anche se è comprensibile la difficoltà di orientamento in un panorama editoriale esploso, dove la sovrapproduzione è costante ed è ancora di più complicato immaginare la resistenza delle opere romanzo al flusso del tempo.Il romanzo sta mutando, cambia la sua pelle, a una velocità tale, in realtà, che è difficile oggi anche solo sentire se respira ancora o meno, se esiste o meno. In Italia stiamo per esempio assistendo alla grande fortuna della biografia, dove è una singola vita a essere al centro della narrazione e dove l’elemento romanzesco spesso non riguarda la ricostruzione dei fatti di quella vita, ma la maniera in cui viene impostato il racconto, l’incursione di elementi romanzeschi nella narrazione biografica reale e fattuale, l’affacciarsi dell’autore o autrice sulla scena, la raccolta di materiali di ricerca che viene resa parte integrante del romanzo.È vero che il romanzo oggi in Italia, e non solo, è contaminato, ibridato, dalla saggistica, dal reportage giornalistico, dalla poesia e dal teatro (e quindi a suo modo estinto, esangue), ma è vero anche il contrario e cioè che l’elemento finzionale continua a trovare i propri spazi nel racconto del reale e che sempre di più si pubblicano biografie romanzate e reportage narrativi. L’elemento inventivo serve, non se ne può fare a meno, come serve il romanzo, anche se il suo campo d’azione è diventato più limitato, anche se proprio nel tentativo della scrittura si mostra la crisi della nostra epoca, il suo fallimento.Da un altro punto di vista le contaminazioni con altre forme di scrittura sembrano anche restringere il campo d’azione del romanzo, come se la richiesta di realtà fattuale, di esperienza diretta, di testimonianza oculare, sia sempre più pressante e scrivere a partire da studi e ricerche personali, mettendosi nei panni di personaggi d’estrazione sociale, culturale, storica diversa sia da considerarsi sempre più scandaloso.La posizione narrativa della prima persona, dell’io narrante, viene scambiata costantemente con la voce confessionale di chi scrive, tutte le storie raccontate da questa posizione diventano automaticamente auto narrazioni, spazi dove la fiction si è ridotta o pare star scomparendo per lasciare il passo all’io che racconta la propria vita in presa diretta.Un’ampia comunità di scrittori richiede a gran voce che certe narrazioni marginali (per fattori economici, politici, sociali) vengano scritte dal margine e non interpretate dall’alto, da una posizione di privilegio e benessere. Ma il grande romanzo, che si teme sia sparito, non era interprete del mondo a prescindere dalla posizione da cui era scritto?È essenzialmente vero quindi che oggi il romanzo ha perso molte delle proprie specifiche e si sta evolvendo verso forme ancora poco chiare i cui esiti non sono incasellabili, ma è anche vero che sono in ballo nuove consapevolezze sui limiti e sulle possibilità della letteratura e della narrazione.Claudio Piersanti ha scritto: «Il romanzo muore a ogni ciclo generazionale. Ed è giusto così, perché secondo me il romanzo non esiste, è un genere auto-generante, non c’è schema, non c’è struttura».Aggiungo a questa provocazione una serie di domande: il romanzo deve essere grande per essere degno? Può esistere una letteratura piccola e fragile che raccoglie le fragilità di chi scrive e del contesto in cui lo fa? E può essere che morte significhi solo trasformazione, trapasso come appunto passaggio verso una terra diversa e attraversabile?Si può credere che il dibattito intorno alla letteratura lasci da parte quella che a volte sembra una gara al posizionamento, al podio, alla misurazione? Si può immaginare che si abbandoni un pensiero “forzuto” della sua esistenza, per incontrare anche dimensioni ridotte e non per questo svalutabili della scrittura che passino anche attraverso le nuove forme-romanzo?Sono domande aperte che chiamano in causa il senso dello scrivere e del parlare di scrittura, come un senso che prende atto di ciò che è perduto, di ciò che è fallito, e però non si arrende alla semplice constatazione di morte, ma prima di procedere alla sepoltura, pretende di tentare la rianimazione, il risveglio seppur parziale del romanzo che a ogni nuovo ciclo, a ogni nuova era, a ogni nuovo secolo ci sorprende e ci interroga. Soprattutto a partire dalla sua assoluta e insindacabile, e a volte insopportabile, libertà d’azione e reazione. —