Robinson, 6 aprile 2024
Intervista al figlio di Zavattini
L’esperienza sul set indimenticabile di “Umberto D.”La vicinanza con i grandi, da Cartier-Bresson a De Sica E la scelta, quasi clandestina, di dedicarsi alle immagini, rifiutando sempre qualsiasi forma di competizionediAntonio GnoliConosco solo un paio di foto in cui padre e figlio sono ritratti assieme. Cesare e Arturo Zavattini. Sono sul set de La veritaaaà, il solo film in cui il grande sceneggiatore si dedicò alla regia. Arturo oggi ha 94 anni, Cesare è morto nel 1989.Arturo vive nella casa romana, oggi anche archivio e memoria del grande sceneggiatore. Prima di incontrarlo ho scorso iDiari(ottimamente curati da Valentina Fortichiari per La nave di Teseo) dove affiora il mondo quotidiano, ricco di malumori e di estro, di questo straordinario animale cinematografico che è stato Cesare Zavattini. Ma alla fine è il figlio che mi incuriosisce più del padre. Perché, pur conservando un inscalfibile amore filiale, è esattamente all’opposto. Tanto Cesare era estroverso e creativo, quanto Arturo è schivo e normalizzante. Devo questo incontro all’antropologo Francesco Faeta che ha seguito con cura e affetto lo straordinario lavoro fotografico di Arturo Zavattini.Siamo nella stanza biblioteca che fu di suo padre.Mi aspettavo di trovare romanzi e testi di cinema.Invece vedo libri d’arte, monografie di pittori, storie artistiche.«La pittura era il mondo parallelo di papà. Aveva cominciato a dipingere nel 1939 e la pittura divenne un impegno quotidiano quando sfollammo a Boville, in Ciociaria. Io stavo a guardarlo per delle ore».Era un hobby?«Non si sentiva affatto un pittore della domenica.Ricordo che partecipò a un concorso di pittura per scrittori. Vinse il primo premio. Tra coloro che parteciparono c’era Montale. Entrarono dei bei soldi che ci permisero di superare alcune pesanti difficoltà economiche. Amava gli artisti. Prova ne sono i carteggi con Dubuffet, Campigli, Fontana, Buzzati, de Pisis.Credo che in lui l’immagine fosse funzionale alla scrittura e viceversa».Anche per lei l’immagine è stata fondamentale.«Tutto nacque da una macchina fotografica che mi regalò. Avevo finito il liceo e mi iscrissi senza convinzione alla facoltà di lettere e filosofia. Ma quel dono, una Ferrania Condor, indicò la strada che avrei percorso».Fino a farne una professione?«Non ho mai pensato di definirmi “fotografo” alla maniera di un Cartier-Bresson. Non ho mai cercato l’istante che rende immortale il momento dello scatto. La fotografia è stata un mezzo per conoscere la vita. La mia professione si è svolta sui set come operatore prima. E poi direttore della fotografia».Il primo film?«FuUmberto D., vi partecipai grazie a mio padre.Vittorio De Sica, il regista, fu generoso. Disse: Arturo tu qui non sei un signorino. Sei parte di noi. Hai solo un compito: osserva e impara».Percepiva, in qualche modo, che “Umberto D.”sarebbe entrato nella storia del neorealismo?«Ovviamente no. Dopo Sciuscià, Ladri di biciclette eMiracolo a Milano, il film era molto atteso. Ma il momento storico era complicato».Infatti non fu accolto benissimo.«Nel 1952, quando uscì, si era in pieno dominio democristiano. I giornali di destra tentarono di demolirlo. L’artefice, più o meno occulto, della campagna denigratoria fu Giulio Andreotti. Temeva che dietro Umberto D. ci fosse lalonga manus del partito comunista. Oltretutto disse che i “panni sporchi” si lavano in famiglia».Il film ebbe anche molti difensori.«Ricordo le prime uscite accompagnate dall’ovazione delle platee. Moravia scrisse una recensione molto intelligente, ma anche grandi storici del cinema come Guido Aristarco e André Bazin aderirono senza riserve alla nuova poetica del film. Perfino Luis Buñuel manifestò la sua ammirazione».Dopo quell’esperienza sul set lei cominciò il mestiere di operatore cinematografico.«Qualche mese dopo, fui chiamato sul set diRoma ore undicidi Giuseppe De Santis. E da allora ho lavorato con numerosi registi, tra gli altri: Alessandro Blasetti, René Clement, Federico Fellini, Alberto Lattuada. Ho filmato anche l’unica regia di mio padre: La veritaaaà del 1982».Il tempo per fotografare dove lo trovava?«Nei periodi in cui ero lontano dal set, ma anche negli intervalli quando non si girava. La cosa importante era che non fossi notato».Perché?«Il lavoro su un set cinematografico è molto duro, perfino brutale. Il mio timore era essere giudicato come il classico figlio di papà che nei tempi morti faceva fotografie».Si è mai sentito “figlio di papà”?«Con Umberto D.sapevo di essere privilegiato. Il rispetto che c’era intorno a mio padre mi metteva sotto una luce decisamente migliore».Lo stesso anno, nel giugno del 1952, lei intraprende un viaggio in Lucania con l’antropologo Ernesto de Martino. Come nasce questo rapporto?«Grazie al fatto che mio padre e de Martino si conoscevano e avevano grande stima l’uno dell’altro.Lo conobbi nella nostra casa romana. Avendo saputo che ero interessato alla fotografia mi invitò a unirmi a lui e al suo gruppo per un viaggio di studio al Sud. Mi parve una bellissima occasione».Destinazione?«Dopo tante esitazioni la scelta cadde su Tricarico, il paese di Rocco Scotellaro. De Martino alloggiò nella casa dei genitori di Scotellaro, dove qualche anno prima aveva dormito anche Fosco Maraini, io mi arrangiai altrove».Che cosa rappresentava Tricarico per de Martino?«Doveva simboleggiare il Sud. L’inizio di un altrove segnato dai tratti primigeni di una società “autentica”, rituale, premoderna. Quel che trovò fu un mondo di inaudita durezza abitato da vinti, un mondo dove era stata cancellata la speranza. Nel cercare le radici di una storia antica trovò dolore e solitudine. Era il muto racconto di gente che non aveva più voce a colpirlo e a smuovere i sensi di colpa dell’intellettuale che improvvisamente scopriva tutta la sua impotenza».Come fu il vostro rapporto?«Abbastanza inesistente. Venni lasciato a me stesso, il che da un certo punto di vista fu un vantaggio. In quei giorni giravo per il paese e fotografavo».Ho visto il materiale sulla Lucania, curato dall’antropologo Francesco Faeta. Sorprende la forza analitica di quelle immagini.«Non ero interessato alle belle foto. Mi parevaimportante togliere allo sguardo la retorica sulla povera gente. Mi premeva solo raccontare una realtà senza filtri ideologici. Furono soprattutto appunti visivi. Una notte mi recai sulla piazza principale del paese e vidi numerosi braccianti che dormivano, distesi o accartocciati, gli uni accanto agli altri, all’aperto: sui marciapiedi, lungo la scalinata della chiesa, accanto alle loro biciclette scassate. Sembrava che il sonno ne avesse inghiottito la fatica che sarebbe stata risputata all’arrivo dell’alba. Erano totalmente indifesi davanti al mio occhio. Inermi. Pensai che anche la storia in quel luogo dormisse da secoli».Dice di non mirare alla realizzazione della bella foto. Come si definirebbe?«Sono un fotografo senza aggettivi. Non sono mai stato competitivo. Ho imparato e ammirato alcuni grandi ma alla fine sono rimasto me stesso».Chi ha ammirato?«Cartier-Bresson, amico di mio padre. Ma che senso avrebbe avuto mettermi sulla scia di quel gigante? Ho conosciuto bene e apprezzato tantissimo il lavoro di Paul Strand. Ma anche qui, come si fa a dire se è stata fonte di ispirazione?».Strand e suo padre realizzarono un libro particolare di cui lei fu testimone.«Si conobbero nel 1949 a Perugia e pensarono di collaborare a un progetto editoriale: una collana di libri fotografici che raccontasse l’Italia. Il progetto piacque a Giulio Einaudi e nel 1955 uscì il primo eunico volume. Un paese fu unico perché, sebbene straordinario, il libro era troppo in anticipo sui tempi».Il paese era Luzzara, dove Cesare Zavattini era nato. Come convinse Paul Strand a fotografarlo?«Papà era un grande affabulatore. Dal momento che il progetto prevedeva diverse tappe, tanto valeva cominciare dal paese che conosceva meglio. Strand era un grandissimo fotografo, ebreo newyorchese, allievo di Alfred Stieglitz, giunse in Italia spinto dalle suggestioni che il neorealismo aveva provocato in America. Quando nel 1953 cominciò la collaborazione tra i due, io ero lì tra il paese e gli argini del Po a seguire quella piccola e fondamentale avventura visiva.Fotografai Strand in più di un’occasione. Proprio in queste settimane l’Istituto centrale per la grafica ha acquisito un corpus di sue opere, tra cui alcuni materiali inediti del lavoro fatto insieme a mio padre».Suo padre abbandonò Luzzara per Roma.«Prima ci trasferimmo a Milano. Lasciò il paese dove lavorava come cameriere in una piccola osteria di famiglia e riuscì a impiegarsi come correttore di bozze alla Rizzoli. Fu un periodo ricco di colpi di scena.Divenne amico di Valentino Bompiani per il quale pubblicò Parliamo tanto di me».Fu un esordio folgorante.«Un successo imprevedibile. Il libro piacque anche a De Sica e, credo, fu uno dei motivi della loro collaborazione storica. A Roma ci trasferimmo nel 1939. Papà lasciava, insieme a Milano, la Mondadori dove era passato adincarichi importanti. De Sica cercò di dissuadere mio padre da quella scelta. Gli disse: attento Cesare, stai per infilarti nella fossa dei leoni! Ma lui aveva deciso, era intenzionato a diventare scrittore di cinema. E Roma era la città giusta».Cosa lo attraeva della sceneggiatura?«La considerava un mestiere ingrato, pieno di compromessi e a volte si sentiva come una puttana che va con questo e con quello. Ma alla fine gli piaceva raccontare storie di umili attraverso la realtà. Dispiegarle tra parola e immagine».In alcune lettere come pure nei “Diari” traspare a volte la grande insofferenza di suo padre nei riguardi di De Sica. Provocata da cosa?«Il conflitto fra i due per un po’ fu sotterraneo ma via via divenne più esplicito. Furono scontri dolorosi anche se sul piano umano l’amicizia restò abbastanza salda. La verità è che mio padre sentiva non valorizzato a sufficienza il suo ruolo di scrittore. Molto di questo malumore nacque dopo il trionfo diLadri di biciclette. I critici parlavano soprattutto di De Sica, di quanto fosse grande. E De Sica faceva ben poco per riconoscere i meriti di Zavattini. Mio padre si sentì tradito».Un po’ come accadde tra Ennio Flaiano e Fellini.«Fino a un certo punto, perché Flaiano la mise giù molto dura con Fellini, arrivando a fargli causa. No, alla fine le incomprensioni tra Zavattini e De Sica sisciolsero. Prevalse la loro storia, il loro talento generosamente messo in comune».Un curiosità: suo padre cosa pensava delle sue fotografie?«Non le ha davvero mai viste. Eppure ho fotografato in giro per l’Italia e per il mondo, dalla Thailandia a Cuba, dove sulla Sierra Madre scattai tra l’altro molte foto a Che Guevara».Come è stato fotografare il Che?«Non ci fu niente di preordinato, fu il caso. Una mattina venne al nostro accampamento e da vero piacione, oltretutto molto fotogenico, si prestò tranquillamente agli scatti. Per tornare a mio padre, ricordo il nostro ultimo viaggio a Luzzara. Lo fotografai dal basso: era affacciato alla finestra con i gomiti appoggiati e le mani incrociate».È la foto che ho visto all’ingresso.«Proprio quella. Risale a poco prima che morisse. Ha l’intensità pensosa che a volte hanno i vecchi. Per me è la foto più importante che gli ho fatto. Parla della sua rivalsa. Del modo in cui la vita ti offre anche da vecchio nuove occasioni. Ricomprò la casa dove avevamo vissuto e che avevamo perso. Ed era lì nuovamente affacciato sulla strada principale del paese con sotto, visibile, l’insegna “Caffè Zavattini”.Non so a cosa pensasse in quel momento. Ma è come se la vita che aveva vissuto improvvisamente gli tornasse tutta indietro».