Tuttolibri, 6 aprile 2024
Su Diderot
«E la cosa più spaventosa è che sempre, ogni giorno della mia vita, sono stato felice. E lo sono ancora, qualunque cosa accada. Solo il mal di denti mi fa diventare malinconico» dice Denis Diderot a un giovanotto in cerca della grande storia che gli darà il successo. L’interlocutore è riuscito a farsi ricevere dal filosofo dell’Illuminismo, quello che per lui – e non solo per lui – è anzi il filosofo del secolo, la figura più alta e significativa di intellettuale (la definizione è del resto di Leonardo Sciascia, quando in Il secolo educatore scrive che «Per non averne alcuna, Diderot ha dunque inventato una professione: quella dell’intellettuale»). Intimidito, non può far altro che ascoltare, tagliando con un temperino le pagine ancora legate di un libro, un’edizione del Giulio Cesare shakespeariano, come gli è stato affabilmente imposto. E Diderot, ormai a un passo dalla morte (siamo nel 1784, nella campagna di Sèvres), si racconta abbandonandosi a digressioni, riprendendo il filo, seducendo con ironica intelligenza l’ascoltatore ma, va da sé, soprattutto noi lettori. Non è però una biografia romanzata (genere ormai esorbitante in libreria) quella che ce viene proposta nel libro di Marco Cavalli, L’uomo dell’enciclopedia. Semmai un ritratto affettuoso con un’intelaiatura narrativa (e una sorpresa finale), basato sulle opere e sulle lettere, non privo di qualche nostalgia, né soprattutto di una chiara consapevolezza su quale sia il punto di vista di chi scrive. Questo Diderot, la cui voce è peraltro filologicamente ricreata, tra calchi e citazioni, è un contemporaneo; sta parlando proprio a noi dal suo secolo intelligentissimo al quale ha dedicato il più significativo monumento alla ragione: la grande Encyclopédie che realizzò con una energia indomabile, da intellettuale editore, insieme con D’Alembert, inventando una sorta di metodo rivoluzionario, di rete mobile della conoscenza non priva di ironia e di ingegnosi labirinti per eludere la censura.
Un mestiere, dunque, l’aveva. E che mestiere: l’Encyclopédie fu la rivelazione di un nuovo sapere. I volumi dovevano essere 17, alla fine furono 28 più i supplementi; fu più volte ristampata e soprattutto piratata (anche con la complicità del soave Diderot). Attaccata dai conservatori e dai gesuiti soprattutto, che vedevano in essa una sorta di offensiva atea, fu nonostante divieti e censure anche uno dei grandi affari editoriali del ’700, il «grande affare dei lumi», come l’ha definito lo storico Robert Darnton: si calcola che il suo consorzio di editori raddoppiò l’investimento – benché ovviamente fosse molto costosa.
Il vecchio filosofo, nella residenza di campagna dove si è trasferito in cerca di un’aria migliore, racconta ora per il piacere di raccontare, dalla prima bohème al lavoro matto e disperatissimo di traduzione, agli infiniti incontri – per esempio col ruvido Laurence Sterne, l’autore del Tristram Shandy che «parlava con la lentezza dei re» (non è esattamente un complimento) e fu per lui un punto di riferimento non solo letterario – non dimentichiamo che Diderot è stato anche un grande scrittore, basti pensare a Jacques il fatalista -; e poi i salotti, le attrici, le dame, la Pompadour (che «non aveva un’anima, e non l’aveva perché non se la poteva permettere. L’altezza e la precarietà della sua posizione le imponevano una rigida economia di movimenti»), gli insopportabili preti con cui «bisogna andarci cauti a fare la guerra» perché «il pericolo di diventare come loro è dietro l’angolo», infine l’insopportabilissimo Rousseau e i suoi fanatici eredi: quelli di ieri e, nella messa in scena affettuosa-maliziosa di Cavalli, si direbbe, quelli di oggi.