La Stampa, 9 aprile 2024
La lezione di Bersani
Ai giovani che sono venuti ad ascoltarlo all’università di Pisa, nella piazza di fronte a quella via San Frediano in cui alcuni loro coetanei sono stati presi a manganellate senza ragione, Pier Luigi Bersani dice: «Non ho niente da insegnarvi, ma un consiglio ve lo do. Ribellarsi è giusto e bisogna cominciare a farlo unendo i puntini. E chiedendosi: vogliamo diventare l’Ungheria? Perché è lì che stiamo andando». L’incontro si intitola: «Nuove generazioni e politica. Una passione da ricostruire?». Il deputato Pd, ex segretario, ex ministro, ex amministratore locale – come non manca mai di ricordare – elenca quei puntini uno a uno, cominciando da quel 23 febbraio in cui ragazzi indifesi e a mani nude sono stati presi a botte dalla polizia senza una ragione e senza ricevere una parola di scuse dal governo (è dovuto intervenire il presidente della Repubblica a dire che i manganelli sugli studenti esprimono sempre un fallimento).Ironia della sorte, quello stesso 23 febbraio è stata inaugurata dall’università di Pisa a Palazzo Lanfranchi, sul Lungarno, una mostra dedicata a Giacomo Matteotti: la vita, le lotte, l’amore per la moglie Velia Titta, le loro lettere, la persecuzione e poi l’uccisione da parte di quel primo fascismo le cui pratiche il deputato socialista denunciò fin dal principio. Bersani va a vedere l’esposizione prima dell’incontro, si sofferma sulla scrittura minuta degli appunti, per non sprecare carta e pagine; sul lato pacifista ed europeista di Matteotti. Poi ai ragazzi elenca quei puntini: «C’è un ribaltamento dell’idea di legalità. Ci si affanna a punire i rave party, le ladre incinte, gli studenti che protestano, e intanto si fanno 17 condoni fiscali, si cancellano l’abuso d’ufficio e il traffico di influenze, si crea una legislazione per cui il 90% degli appalti può essere concesso senza gara, con subappalti a cascata, si aumenta la circolazione del contante. Si vuole creare un’aria che comprime gli spazi di contendibilità sbeffeggiando la magistratura, attaccando le autorità indipendenti, mettendo le mani sulla stampa e sull’informazione».Torna ancora sulla vicenda Agi, l’ex ministro dell’Industria: «I giornalisti di agenzia sono minatori dell’informazione, vanno a prendere la materia prima che altri lavorano. Se c’è un posto dove la professionalità e l’indipendenza sono cruciali è quello. La seconda agenzia italiana da 60-70 anni in mano all’Eni, una società pubblica che ha finora garantito libertà e autonomia, adesso dovrebbe essere venduta a un deputato della destra, patron di una larga fetta di sanità privata e di tre giornali orientati a destra. Fossero anche orientati a sinistra, non va bene. Se passa una cosa così si apre una strada che dobbiamo sorvegliare con grande attenzione».L’onda che Bersani vede crescere nelle nuove generazioni, e in cui crede, gli ricorda quella che nel dopoguerra portò a grandi conquiste. «Non abbiate un senso di impotenza – è l’invito – il mondo si è fatto piccolo, le opinioni pubbliche possono muovere montagne anche nelle autocrazie, figuriamoci qui». Poi, per spiegare le condizioni per la ripresa di una passione politica, ricorda come cominciò: organizzando uno sciopero dei chierichetti, perché le mance ai matrimoni e ai battesimi erano troppo più basse di quelle date ai funerali. «Serve avere il sentimento del giusto e dell’ingiusto e serve sentirsi parte di una compagnia, con la percezione che il cambiamento per cui lotti non riguarda solo te». Racconta di quando si ritrovò a una marcia dei Fridays for Future, e una ragazza riconoscendolo gli chiese: «Comè?». E lui: «Una meraviglia, peccato non sia il ’68». «Perché?». «Perché mi avreste fischiato». Non vede derive eversive, Bersani, non vede estremismi che possono portare al terrore e agli anni ’70: «Può esserci qualche episodio isolato causato dalla frustrazione e dalla rabbia, ma quel clima che dipingono non c’è». Più tentativi di repressione ci saranno, è la previsione, più «si caricherà la molla», perché le quattro cose che stanno a cuore ai ragazzi sono «il problema»: la pace e la guerra, il clima, le diseguaglianze. L’importante è che la politica lasci aperti varchi per farli entrare, come fece il Pci di Berlinguer dicendo ai giovani, tra cui lui: «Entrate e cambiateci». Ben sapendo che quei ragazzi scolarizzati avrebbero finito per sopravanzare gli altri. Ma a chiudere quei varchi, è la domanda, non sono oggi i cacicchi, i capibastone, i signori delle tessere, coloro che anche a sinistra usano la politica per l’interesse personale e non per quello collettivo? «I dirigenti che ci lasciarono entrare avevano una caratteristica: non pensavano che la sedia fosse tutto. Oggi i partiti possono fare molto di più, ma è una battaglia che sento di aver perso: perché quando il partito è troppo liquido, è facile che i margini diventino evanescenti. Vanno benissimo i codici etici, per carità, quello che serve però è un criterio di selezione più esigente. Serve la forma partito. Sarà mica un problema avere uno che dice “voglio entrare” e due o tre probiviri che dicono “ok”. Va bene fare le primarie quando ci sono importanti responsabilità pubbliche da scegliere, ma per le responsabilità di partito no. Non è quello il modo. E a che servono organismi pletorici di mille persone? Vuol dire che non decide nessuno. Infine, per quanto tu sia grande, devi avere in testa che c’è sempre qualcosa di buono fuori da te con cui interloquire».Bersani racconta di averci provato, di aver avuto pronta una riforma del partito – «che comunque non sarebbe passata» – alla vigilia della caduta del governo Berlusconi. «Arrivò Monti, non se ne fece più niente, ma trasformarsi nella società civile per non farsi superare dalla società civile non è la risposta al discredito dei partiti». A quei ragazzi che manifestano, che gli chiedono – dalla platea – parole nuove che li portino al voto (Carlo) o un modo per fare politica anche da lontano, dove si sente costretto ad andare (Sebastian), Bersani dice: l’onda sta arrivando, preparatevi a dare una mano. Ma sa che serve «un carro a cui attaccare le loro speranze, le loro idealità». All’università di Bologna ho fatto un esperimento: mi chiedevano se mi sentissi di sinistra, progressista o riformista. «La sinistra ti fa battere il cuore ma è una cupola grande, va declinata; i progressisti sono quelli che non vogliono dirsi di sinistra (sembra parlare dei 5 stelle e di Conte, e in effetti è così); la parola riformista sarebbe la mia, ma si è ammalata, costretta a uno scisma con la parola sinistra. Ho detto: mi sento un comunista italiano. Sono partiti gli applausi». Partono applausi anche a Pisa: «Ma vedete, voi non eravate nati quando quel partito si è sciolto. Questo significa che non c’è ancora un posto dove queste tre cose fondamentali, pace, ambiente, diseguaglianze, trovano casa».Sui boicottaggi delle università israeliane invita a riflettere: «Una cosa è la libera circolazione del sapere, e ci mancherebbe, ma il caso della Normale di Pisa nasce da un protocollo tra il governo italiano e quello israeliano su tecnologie dual use. Possibile sia vietato farsi delle domande? Questo tema del duale non è affatto una banalità, perché siccome si fa sempre più fatica a finanziare direttamente armi, è più agevole sviluppare tecnologie duali per attrarre investimenti. Ritengo sia sensato dare un’occhiata a queste cose. E lo dico pensando che l’Europa debba munirsi di un sistema di difesa comune dentro a una politica estera che rinnovi i due motivi per cui l’Unione è tanto piaciuta nel mondo: la capacità di chiudere un secolo di guerre investendo su una pace duratura e il suo modello sociale, il welfare universalistico. Vi consiglio un libro: Lezioni sull’Europa di Lucien Febvre. È del 1947, vale ancora oggi. L’Europa è in crisi perché ha mollato le sue due fondamentali aspirazioni». Infine, ancora, il senso ultimo della politica: «Non il compito di creare una società perfetta, ma di tenere a bada la bestia che abbiamo dentro. C’è un’aggressività potenziale nell’umano che va tenuta a bada perché non la risolvono né la storia né il progresso: nel Medioevo abbiamo ucciso migliaia di streghe, nel ’900 sei milioni di ebrei. Non possiamo dire “mai più”, ma possiamo credere nella democrazia che come diceva Churchill è il peggiore dei sistemi a eccezione di tutti gli altri». Ha un compito, però: consegnare la merce dell’emancipazione, sanare le disuguaglianze. Senza questo, le viene la tosse, si ammala. Perde se stessa.