Domenicale, 7 aprile 2024
Sulla mostra milanese del Mudec dedicata al tatuaggio
A fior di pelle. Per secoli stigmatizzato come marchio infamante dell’uomo selvatico e primitivo nonostante fosse diffuso nel mondo antico, questa forma di decorazione trova una legittimità nel mondo artistico. Una mostra al MudecGuido GuerzoniPur non ignorando la diffusione che il tatuaggio ebbe nel mondo egizio e greco-romano, si è per lungo tempo ritenuto che fosse presto scomparso dal vecchio continente, trattandosi di un uso proprio di civiltà pre e protostoriche, «uno dei caratteri speciali dell’uomo primitivo e di quello in istato di selvatichezza», marchio infamante che rivelava a colpo d’occhio le colpe di esseri – e dell’essere – incivili, dacché «il tatuaggio è la vera scrittura dei selvaggi, il loro primo registro di stato civile» (CesareLombroso, L’uomo delinquente, p. 324).
La semplice idea che una tradizione così barbara e pagana, apertamente stigmatizzata al cap. XIX v. 28 del Levitico («Non farete incisione sulla vostra carne a causa di un morto; e non farete figure, o segni sopra di voi»), condannata dal Concilio di Nicea del 325 e aborrita dai Santi Padri, potesse essere sopravvissuta per oltre quindici secoli nel cuore di una nazione tanto civile, colta e cattolica lasciava perplessi, se non interdetti, diversi commentatori.
Si tatuavano gli Assiri descritti da Luciano, i Daci e i Sarmati che secondo Plinio “corpora sua inscribunt”, i Traci osservati da Erodoto, così carichi d’inchiostro da originare l’espressione Thracianotae, ma non i Cristiani, né, tanto meno, i devoti servi di santa Romana Chiesa. Nei fatti, che si trattasse di Arii, Agatirsi, Assiri, Britanni, Cananei, Geloni, Libi, Nubiani, Pitti o Scizi, il tatuaggio denunciava, subito, senza parole, la natura barbara dei suoi portatori, benché nell’idioma latino i termini si fossero confusi sino a identificare, nel lemma nota, l’emblema stesso della civiltà delle lettere, la scrittura, come si può evincere dalla sostituzione del greco stizein (pungere, pizzicare, dalla cui radice derivò stigma) con i verbi inscribo o imprimo. Sostituzione del tutto corretta, poiché il tatuaggio è stato prima di tutto scrittura, espressione di un pensiero compiuto, narrazione, voto, discorso, epopea, istoria.
Tuttavia, risultava difficile accettare una così massiccia, prolungata e ostinata presenza europea e italiana. Non è dunque un caso se nel 1880 il Bukland, in uno dei primi scritti accademici sul tema, affermò che «il tatuaggio si estinse rapidamente dopo il contatto con le razze civilizzate; ma è alquanto singolare che nessuna traccia di tatuaggio, per quanto ne so, si trovi tra i dipinti e le sculture egiziani, assiri, greci e romani, sebbene queste nazioni civilizzate debbano essere entrate in contatto con persone tatuate». D’altronde, nell’immaginario collettivo otto e novecentesco, i variopinti segni che adornavano i corpi e i volti di selvaggi più o meno buoni, prima di possedere qualsiasi significato intrinseco, marchiavano un’alterità di fondo rispetto al sistema valoriale eurocentrico, un’inferiorità morale ancor prima che estetica. Il tatuaggio, che nella vulgata storiografica sarebbe stato donato agli Europei da Cook nel 1769 e da Bougainville nel 1771, avrebbe così segnato per oltre due secoli il nitido e perigliosamente valicabile confine tra rettitudine borghese e devianza criminale, eccezion fatta per eccentrici aristocratici e inquieti viaggiatori. Si creò così una mitografia partigiana, che rivendicandone l’esotismo delle origini riuscì a imporre, caso piuttosto raro nel lessico del tempo, il ricorso a un lemma dalla pacifica radice: «la parola inglese tattoo deriva dalla parola polinesiana tatau… che per la prima volta apparve in inglese nei Viaggi di Captain Cook, 1770 (…) E con essa è arrivata la parola tabu, o taboo. Durante l’operazione (del tatuaggio, ndr.) un uomo era sotto tabu. Si dice che queste due siano le uniche parole polinesiane nella lingua inglese. Da allora, la parola tattoo è stata adottata in molte altre lingue europee».
Sicché il tatuaggio, tollerato nelle subciviltà extraeuropee quale retaggio di atavismi che il progresso verso forme di convivenza più evolute avrebbe di certo cancellato, non avrebbe più trovato scampo nei costumi occidentali, essendo ritenuto, senza ombra di dubbio, la traccia più evidente di inclinazioni criminose. Di qui la credenza, dura a morire, che nelle nazioni europee e segnatamente in Italia queste primitive forme di decorazione corporea fossero scomparse sin dall’antichità, in concomitanza con l’estinzione dei modi in uso presso gli antichi greco-romani. Questo sguardo parziale, talvolta addolcito da curiosità etno-antropologiche, in altri casi indurito dal vigore dei pregiudizi positivisti, non poteva quindi non lasciare tracce durature, nonostante Lombroso, e secondo l’autorevole commento di Alfred Gell, autore di una splendida monografia, «provide a point of view on tattoing which is explicitly (rather than implicitly) European, middle-class and disapproving». La mostra al Mudec di Milano e il catalogo rendono finalmente giustizia a decenni, per non dire secoli, di ingiustificata ignoranza.