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 2024  aprile 07 Domenica calendario

Fare a memoria il ritratto di una mela

«Frutta: pere, pesche, melanzane, guardiamoli come stato d’animo, e non per quello che sono. (...) Non faccio ritratti dal vero, li estraggo dalla memoria. Magari faccio degli schizzi, ma poi produco tutto a memoria, altrimenti che riratti sono! Sarebbero una copia. Io mangio mele perché mi piacciono, poi faccio disegni di mele: l’essenza della mela». Si respira, finalmente.
«Mi reputo anche l’inventore del vassoio, perché ad un certo momento della nostra civiltà non si sapeva più come porgere un bicchiere, un messaggio, una poesia. Sono nato in una famiglia di pessimo buon gusto e faccio del pessimo buon gusto la chiave di liberazione della fantasia». Si applaude, convintamente.
«La mia professione. Italiano occulto. La mia qualifica: pre-postmoderno. Il mio prodotto: mele, pere, pomodori. Ma incantati! Lo scrisse Raffaele Carrieri. Secondo Gio Ponti sarei anche un italiano vero. Perché ho capito la prospettiva dell’uovo appeso a un filo di Piero della Francesca». Ci si meraviglia, pienamente.
«Il pubblico mi ha spiegato che quello che facevo era qualcosa di più di una decorazione. Era un invito alla fantasia, a pensare, a evadere dalle cose che ci circondano, troppo meccanizzate e inumane. Erano dei biglietti di viaggio per il regno dell’immaginazione». Commuoversi, ora, e correre ad abbracciare il primo che capita. Timbrare subito il biglietto per il regno dell’immaginazione. Si parta, immediatamente!
Parole di Piero Fornasetti (1913-1988), un genio spesso incompreso, quando non completamente travisato, dell’arte del Novecento. Un maestro che, dall’alto di un infinito estro, di una inesauribile fonte di immagini, di un gorgoglìo felice e straripante di oggetti, mobili, ci ha regalato il surrealismo di tutti i giorni e in tutti i giorni: i suoi pezzi, decorazioni inaspettate, classici che fanno il verso al classico, pre-postmoderni, sono emozioni, anzi «vaghe vibrazioni» (sono ancora parole sue) solidificate, o, meglio ancora, «ricordi del futuro» che ci vengono incontro nel nostro sbadato vivere a dimostrarci la forza dell’immaginario. Sì che sono «inviti alla fantasia». Queste frasi riportate sopra, “scolpite” in caratteri bodoniani (che lui amava tanto), su fondo nero, corredano alcune pagine di un sontuoso libro che arriva in libreria alle soglie del Salone di Milano, a ricordarci che il futuro ha radici lontane nel passato (e viceversa) e che da questo scambio, per il tramite del sorprendente, talora dell’incongruo, ma spesso semplicemente del necessario ma inconsapevole, nasce spesso qualcosa di cui serbare memoria. Ho collezionato, negli anni, tutte le monografie importanti su Fornasetti – casa e personaggio –, ma questa, Memorie del futuro (Rizzoli, pagg. 380, migliaia di illustrazioni, € 85), non mi sembra per nulla l’ennesima. Al contrario: mancava. Forse perché la curatela è del figlio Barnaba (che oggi porta avanti l’azienda e tutela sapientemente l’eredità estetica, commerciale e filosofica del padre), e che, giustamente, include nell’ultima parte del volume, anche le realizzazioni recenti fatte dall’atelier sotto la sua egida; forse perché ripercorre e ricapitola con pazienza, perizia filologica, attenzione al dettaglio (i testi sono di Silvana Annichiarico, Ginevra Quadrio Curzio e Archivio Fornasetti) le molte anime che hanno costruito immagine e immaginario, catalogo e inventario di Fornasetti. E, in più, per me, c’è un incipit che è rivelatore: il primo capitolo proposto al lettore (prima ancora del «culto della linea nera», del rapporto con Gio Ponti, dell’architettura per non architetti, tutto sacrosanto...) è Piero Fornasetti “il bibliofilo”. Perché da quella partenza si spiegano molte cose, anche se ovviamente non tutto. Dai libri, rivela Piero, ha molto imparato; e dalla sua passione e attitudine al collezionismo: non una mera smania di possesso ma una sensibilità spiccata all’analogia; e dunque al “tema” e alla “variazione” che costituiscono lo scheletro di una possibilità artistica. Le creazioni di Fornasetti sono (state) migliaia: i 13mila artefatti diversi (e non è il caso di elencare vasi, portaombrelli, trumeau, vassoi, tappeti, posacenere, carte o paraventi, certi dei quali sono stati disegnati due volte...) costituiscono un «progetto estetico universale» che – potrà piacere o no, apparire soverchiante o meno, eccedere nella decorazione fino a sfiorare il kitsch (e Fornasetti patì, in anni bui, il “confino” ideologico del suo modo di creare oggetti, fino al riscatto avvenuto con Barnaba, bravo a cogliere a ricollocare in una giusta prospettiva il progetto paterno) – non si può dire però che non sia identitario. Forse, anzi, e questo volume lo rimarca in maniera mirabile, ciò che va apprezzato maggiormente di tutto questo enorme potenziale progettuale è che, nel mescolare surrealismo ed echi neoclassici, nel rifiutarsi di credere nelle epoche e, peggio, seguire le mode, Fornasetti non è (più) un brand: è una modalità di “riordinare” il mondo, seguendo il filo dell’imprevisto: è il mondo a diventare fornasettiano e non più l’opposto. Le molte mostre in questi anni, il fatto che i pezzi di Fornasetti siano oggetto di collezionismi (perché ovviamente tante tipologie diverse si declinano: io, per dire, inseguo i piatti dedicati alle «macchine volanti», mongolfiere oniriche incorniciate in meravigliosi oblò di porcellana) confermano la ricchezza e il fascino di questa metodologia. «L’immaginazione non è fuga», scrive Barnaba «ma la capacità di prefigurare soluzioni, intuire scenari: questa è ciò che chiamo la capacità trasformativa del sogno, a cui, oggi, mi sembra si sia persa l’abitudine». In molte fotografie del libro, Fornasetti padre “gioca” a nascondersi dietro e con i suoi oggetti; in diversi autoritratti “indossa” la sua faccia come una maschera: svela, in questi atteggiamenti, la caratteristica fondamentalmente teatrale della sua forma mentis: un modo per calarsi, lui e il suo teatro, dentro la realtà, sovvertendone regole e tradizioni, pur rispettandole, in maniera sottile. «Spesso mi raccontava», ricorda Barnaba, «di arredi incredibili che vedeva in sogno nei minimi dettagli, impossibili da realizzare da quanto fossero bizzarri e ricchi di materiali fantastici, inesistenti nella realtà. Lui riusciva a leggerne i particolari pure in sogno e a ricordarli in modo da “schizzarli” la mattina e tradurli in realtà quando possibile». Ecco spiegata l’origine di questi manufatti che ci rigiriamo ammirati per le mani, o che osserviamo, scrutando ogni minimo particolare di una parete di nuvole, di una pietra di malachite di carta, d’uno specchio convesso. È da quei sogni che capita un po’ di cinema anche per noi, nelle nostre case, e quel pezzo onirico ci ammonisce che abbiamo bisogno di favole, di «biglietti di viaggio per il regno dell’immaginazione», dove troppo spesso ci dimentichiamo di andare e, forse, in fondo, di appartenere.