Domenicale, 7 aprile 2024
Lucrezio e gli algoritmi
«La nostra epoca è stremata e la terra, spossata dai parti, genera a stento piccoli animali, lei che aveva generato tutte le specie e dato alla luce fiere dai corpi giganteschi. Tutte le cose a poco a poco si estinguono e, stremate dal lungo cammino della vita, si avviano verso la bara». Troppo forte la tentazione di scorgere in questi versi del De rerum natura di Lucrezio i toni della profezia con duemila anni d’anticipo, se è vero che negli ultimi quarant’anni l’attività umana ha causato la scomparsa del 60% di mammiferi, rettili, pesci e uccelli presenti in natura. Ma non di profezia ecologica si tratta bensì, letteralmente, di apocalisse, cioè di svelamento della verità nascosta di ogni tempo storico: del presente dei suoi contemporanei, cives romani del I secolo a.C. destinati a interpretare la realtà secondo i canoni fuorvianti di una cultura repubblicana moralmente in crisi, ma pure di tutte le altre epoche compresa la nostra, segnata da una globalizzazione malandata e naturicida.
L’apocalisse non anticipa cose che oggi non sono e che un giorno verranno, bensì apre gli occhi sulle cose che già sono, qui e ora, il cui annuncio tuttavia suona sconcertante e inaudito, novum, perché sono nascoste dal velo ingannevole del notum, della tradizione, del mos maiorum, di apparati politici e culturali che sulla rimozione di quelle res novae basano la propria egemonia. L’ultimo libro del latinista Ivano Dionigi, L’apocalisse di Lucrezio, è un formidabile atto d’amore frutto di un corpo a corpo durato una vita intera col misterioso e rivoluzionario Tito Lucrezio Caro, il poeta e filosofo (nato forse a Pompei o a Ercolano intorno al 94 a.C. e di cui null’altro sappiamo) formatosi sul pensiero di Epicuro (filosofia bandita in una Roma votata al conservatorismo politico di matrice stoica) ma in realtà eterodosso anche nei confronti di quella dottrina. Destino enigmatico, quello di Lucrezio. Nessuno tra i suoi contemporanei, ad eccezione di Cicerone, menzionò mai il suo nome né i sei libri del suo capolavoro in 7.415 esametri. E un sostanziale oblio proseguì in età cristiana per oltre un millennio fino alla sua riscoperta, a metà del XV secolo, da parte dell’umanista Poggio Bracciolini.
Da quel momento in poi il poema divenne un riferimento per i moderni, ispiratore della pittura di Botticelli e dell’imminente rivoluzione scientifica, letto e ammirato da Machiavelli, Giordano Bruno e poi da Goethe, Leopardi, Einstein. In virtù della sua passione per la scienza della natura, per quel suo «sentire cosmico e razionale» e per la spietata forza critica che con la grazia eccelsa dei suoi versi non fa sconti a nessuno, l’ateo Lucrezio – spiega con grande chiarezza Dionigi – smaschera le poderose sovrastrutture che l’umanità ha costruito al fine di difendersi dall’impatto con la verità della natura. La politica, il progresso, la religione e persino l’amore sono solo scudi protettivi: Lucrezio anticipa addirittura Lacan, suggerisce Dionigi, anche per lui infatti «il rapporto sessuale non esiste» ma è solo una lotta tra corpi e fantasmi, il tentativo impossibile di afferrare l’amato. Gli esseri umani sono dominati dalla paura della morte e da essa spinti all’avidità, alla competizione per il potere e a un attaccamento malsano alla vita, voltando le spalle a un cosmo infinito (infinitum, parola coniata da Lucrezio, è anche il numero degli universi possibili) di cui la terra è solo un frammento marginale.
Nessun antropocentrismo e nessuna gerarchia tra gli essenti, quindi. Al contrario i fiocchi di neve, i sassi di fiume, gli esseri umani, il mare, il cielo, i nostri pensieri… sono tutti composti degli stessi atomi, eadem elementa, e governati dal medesimo principio, eadem ratio. «Tutto è in relazione – scrive Dionigi – anzi tutto è relazione e ha un destino comune; e quindi tutto ha la stessa dignità». Altro che anima immortale! Altro che divinità che dall’alto sovrintendono alle vicende terrene, altro che piante e animali al servizio dell’uomo e della tecnica, altro che popoli superiori votati per natura a dominare sugli altri!
Il De rerum natura è un manifesto ateo e rivoluzionario di estrema potenza, il cui impatto è difficile da reggere. Tutto muore, nulla sfugge alla mors immortalis. Ma in realtà nulla si distrugge né si crea, «nessuna cosa rimane uguale a sé stessa e tutto si trasforma», intuisce Lucrezio con due millenni d’anticipo su Lavoisier, a causa dell’infinito movimento degli atomi incorruttibili. Ciò non significa tuttavia, ecco l’altra intuizione folgorante, che l’esistenza sia guidata a ogni passo dal moto atomico secondo un ordine necessitante e inscalfibile: il clinamen (altro neologismo lucreziano), cioè la deviazione infinitesima e casuale nelle rotte degli atomi, segna il suo scarto da un materialismo assoluto. C’è spazio per la libertà, e dunque per l’etica, nell’universo lucreziano, Dionigi lo evidenzia in pagine avvincenti. Nulla ci sottrae al «destino comune», certo, e tuttavia resta lo spazio per «una libera volontà strappata ai fati» che ci emancipa e responsabilizza, ed è frutto non della conquista o del potere bensì, all’opposto, della «rottura dei decreti del fato», dell’irruzione imprevedibile di un cambio di traiettoria. Devianza e differenza come garanzie di libertà, insomma. Come riconoscerà Vladimir Jankélévitch sulla scorta di Lucrezio, la monotona vita di un impiegato è «non vita» finché non interviene il clinamen a interrompere il suo tragitto quotidiano tra casa e lavoro, innescando avventurosi mutamenti a catena che ne sconvolgono l’esistenza rendendola finalmente «vita».
Una grande e vertiginosa lezione, quella di Lucrezio rilanciata da Dionigi, preziosa e urgente, davvero «apocalittica» per un’umanità che, assurdamente, divorzia dalla natura e compete per il potere mentre il suo arbitrio, ignaro, è sempre più intrappolato nella fitta rete degli algoritmi.
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Ivano Dionigi
L’apocalisse di Lucrezio
Raffaello Cortina, pagg. 208, € 14