La Lettura, 7 aprile 2024
Sulla violenza minorile
In Finlandia, martedì 2 aprile, un bambino di 12 anni ha sparato ad alcuni coetanei a scuola. Non si contano, anche in Italia, gli episodi di violenze di gruppo, aggressioni a fragili e risse, con protagonisti minorenni. Il problema è diffuso, come mostra anche una serie tv cult di questi anni, Mare fuori. Agli adolescenti criminali (e non agli adolescenti in genere) è dedicato il saggio Dieci lezioni sul male. I crimini degli adolescenti (Raffaello Cortina) che illustra storie raccolte in una vita di lavoro come consulente dei tribunali per i minori dallo psicologo giuridico Mauro Grimoldi. Che a «la Lettura» spiega quali disagi si celano sotto quei delitti.
È cresciuto davvero il crimine minorile?
«I dati del ministero dell’Interno dicono che sì, c’è stato un grande cambiamento della criminalità minorile, con un effetto importante dopo la pandemia sulla tipologia di reati dei minori. Paradossalmente, il numero è costante, circa 30 mila l’anno, ma è cambiata la tipologia. Ad esempio, l’appropriazione di beni prende tre forme: il furto, l’estorsione, la rapina. Il furto è prendere i beni di una terza persona, senza incontrarla; nella rapina invece c’è qualcosa di diverso, c’è l’incontro con l’altro. È un’appropriazione, ma è anche sfida, confronto violento: vado da qualcuno e mi faccio dare il cellulare, il portafogli, con una minaccia, un’aggressione. Ebbene, tra il 2020 e il 2022 nei grafici c’è una biforcazione netta: diminuiscono lievemente i furti, triplica il numero di rapine commesse da minorenni. Così come aumentano violenze private, le aggressioni. E le risse, in una forma molto tipica di questi tempi: tantissimi soggetti si accordano online per incontrarsi e aggredirsi in un rituale collettivo, senza conoscersi, quindi senza una relazione simbolica con l’altro: non ti aggredisco perché mi hai provocato ma perché è stabilito così in un rituale. Il tratto più tipico della criminalità ultramoderna è l’incapacità di relazionarsi attraverso un atto di parola: non c’è la capacità di generare una relazione. L’aggressione allo sconosciuto non ha nulla a che vedere col confronto dialettico, con un litigio che passa attraverso la parola».
La violenza dei minori è senza parole.
«Il silenzio è ciò che dobbiamo temere di più. Il silenzio, la difficoltà che gli adolescenti hanno sempre nel fare i conti con i propri desideri e metterli in parola. Però l’esperienza della solitudine con la pandemia è diventata un problema accentuato in maniera drammatica. In qualche modo l’agito sostituisce il pensiero, la parola, la capacità di relazionarsi con l’altro. Sono analfabeti».
Analfabeti in che senso?
«Hanno notato, i miei editor di Raffaello Cortina, che almeno tre volte nel libro ho scritto che quando si fa prevenzione bisognerebbe lavorare sulla poesia, insegnare qualcosa che ha a che fare con le parole. Lo dice Massimo Recalcati, e ha ragione. È quello il problema. Quei ragazzi dovrebbero essere educati ad affrontare uno degli elementi più frustranti della vita, che è l’esperienza dell’amore: quando l’adolescente incontra l’amore è un casino. Si è soli, l’altro diventa qualcosa di importantissimo che ha un potere infinito su di te, bisogna essere molto forti. Ma anche limitandoci alla dimensione del desiderio (sessuale, ma anche il desiderio di dimostrare la propria bellezza sociale, essendo intelligenti, capaci a scuola, eccetera): be’, è diventata una faccenda complicatissima. Non riescono a farlo con le parole. E allora ecco la sopraffazione dell’altro, andare in un parco e aggredire una persona che non conosci. Perché? Per dimostrare che sono più forte».
Quali sono le cause, prima e dopo il Covid?
«Premessa: i capitoli del libro sono divisi per tipologie di reato. Una straordinaria scoperta della psicologia dinamica dell’età evolutiva è che i reati hanno un significato simbolico, cioè sono parole, sono modi di esprimere il disagio: il reato sceglie il suo autore. Ecco perché in questo libro le lezioni sul male sono quelle che mi hanno insegnato loro, con le loro storie, su cui ragionare. Sul motivo per cui un soggetto X, minorenne, decide di commettere un reato: a loro è spesso ignoto. È un processo complicato, appropriarsi del proprio esserci stato, dello “starci dentro”, per usare il loro gergo. Il senso di non appartenenza è il primo che sottolineo: la dimensione del silenzio e dell’analfabetismo concettuale, una distanza rispetto ai propri desideri, un senso di noia. E la noia è l’incapacità di avere a che fare con il proprio desiderio: io non so niente di me stesso, non so cosa voglio, non so perché ero lì, cosa ci facevo. Un evento atmosferico. Il reato come la pioggia. È successo davvero, hanno buttato un cadavere nel pozzo, hanno reso testimonianza piena, e poi hanno detto: “Ora possiamo andare a casa?”. No, non potete. Ma perché pensino questo, devono avere parlato poco o nulla, nella vita! Se io prendo un gruppo di adolescenti che ha commesso un reato sessuale, li metto in una stanza e dico: “Raccontate tra voi cos’è successo”, dopo poco, con la messa in parola, vedi gente che si rende improvvisamente conto, disperazione. Certo, uno fa lo sbruffone, uno rimane distante, altri però vanno in crisi. Ma come, non vi eravate messi d’accordo? Il reato minorile spesso è poco organizzato, la mancanza della dimensione di parola lo rende poco scaltro».
Altre cause?
«La maleficazione dell’altro. In un’aggressione nessuno mai si sente responsabile del primo passo. Tutti si sono difesi da qualcosa: “Mi ha guardato male”. Un ragazzo è riuscito finalmente a stare con una ragazza, prima relazione importante, “ma sa, è un mondo difficile, non ha idea di cosa c’è là fuori, guardi cosa mi tocca fare”: e tira fuori il coltello. “Per difendermi”. Pensate alla pericolosità di un soggetto che va in giro convinto di doversi difendere. Poi ci sono quelli che ubbidiscono agli ordini. Il processo di Norimberga insegna: abbiamo ubbidito agli ordini, dicevano. Per i minorenni, ciò ha a che fare con la criminalità organizzata o con le gang. Poi, altro caso, ci sono quelli che stanno male: il ragazzo con il coltello, geloso del mondo perché non è abituato alle frustrazioni. La nostra cultura non abitua i bambini alle frustrazioni. Questo non è di per sé un male, attenzione. Ma l’incontro con la frustrazione può essere intollerabile. È il caso del ragazzo citato nel libro, che entra a scuola con il fucile nella custodia della chitarra: una strage italiana scampata, ma rischiata. Narrazione interna: vai e metti a posto le cose, ti vendichi di qualcosa che il mondo ti ha fatto».
Come uscirne?
«Spesso in questi ragazzi c’è un copione che si ripete, Sigmund Freud lo chiama coazione a ripetere: c’è una trama che tende a ripetersi. Se una persona è molto sana, non se ne accorge neppure; se è molto malata, la cosa assume caratteristiche eclatanti. Ho incontrato una persona con 8 procedimenti penali aperti. Raccontava la stessa storia, in cui, per 8 volte, aveva sempre avuto ragione lui! Esempio di coazione a ripetere: e allora si viene da noi, da uno psicologo. Come se ne esce? Quando siamo malati di qualcosa, e per me questi ragazzi sono malati di qualcosa, la cosa più importante è capire perché, l’atto della diagnosi. Ma con competenza. Uno strumento l’abbiamo, il Dpr 448 del 1988 è una legge straordinaria (ora un po’ intaccata, ma è un’altra storia) che dice che ciò che è vietato per gli adulti, cioè la valutazione psicologica di un autore di reato, per i minori è obbligatoria. Oggi l’applicazione del Dpr 448 è fortemente carente. Ma così si rinuncia a risolvere un problema che crea sofferenza sociale, specie per le vittime. Orientarci verso il recupero ci costerebbe meno: diagnosi e terapia».