Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  aprile 08 Lunedì calendario

Intervista a Massimo Manzi, il figlio del professor Alberto

Quest’anno a novembre cadrà il centenario dalla nascita di Alberto Manzi, il maestro d’Italia. Ne parliamo con il figlio Massimo, 74 anni, infografico in pensione, anche in occasione della ripubblicazione di uno dei tanti racconti per ragazzi del padre, Testa rossa (Gallucci), e del ritrovamento di un inedito.Come vi preparate al centenario?«Il Centro Manzi, ente dell’Assemblea Regionale dell’Emilia-Romagna, diretto da Alessandra Falcone, raccoglie l’archivio di mio padre ed è un luogo di formazione per insegnanti e studenti. Per il centenario è stato siglato un protocollo d’intesa col ministero dell’Istruzione, che se ne fa promotore nelle scuole, e con la Società Dante Alighieri, con una serie di iniziative dall’Argentina al Giappone e altre dal basso. Non vogliamo celebrare solo il maestro della tv, che va benissimo, ma ci interessano anche l’insegnante di scuola e lo scrittore di libri».È il caso di Testa rossa?«Una fiaba avventurosa, che col tempo ho apprezzato, dal meccanismo semplice che si rivela complesso. Dentro ci siamo anche io e i miei fratelli».Ora avete trovato un inedito?«Un romanzo breve pubblicato in tedesco, Il viaggio verso Arjeplog, ambientato nella natura in Lapponia. Ci sono tutti i suoi temi: l’amore per il verde, il rispetto dell’altro e la cultura come crescita e riscatto».Qual è il suo libro preferito di suo padre?«Da ragazzo era Orzowei, perché mi si cuciva addosso come romanzo di formazione sulla non appartenenza. Da adulto ho recuperato Testa rossa».Perché scriveva questi libri?«Separare il maestro Manzi dallo scrittore è impossibile e improprio. Insegnare per lui equivaleva a narrare. Lui raccontava per suscitare domande e risposte. Si mise a insegnare per narrare e confrontarsi».L’obiettivo era la curiosità?«Mettere in moto il meccanismo. Il racconto aiuta in questo, in classe come sulla pagina scritta».Era antifascista?«Sì, si arruolò come volontario nel Battaglione San Marco aggregato all’Armata britannica e andò a combattere in Emilia sulla linea gotica. Si tende a fare un’agiografia su di lui, ma non è mai stato al suo posto. Aveva degli ideali pur senza essere uomo di partito, nonostante le offerte da Pci e Psi. Era un socialista libertario con una matrice cattolica di formazione».Era massone?«Quando lo abbiamo sentito dire noi figli non ci credevamo, allora abbiamo scritto al Grande Oriente che non ha prodotto nessuna carta d’appoggio. All’inizio soffrivo di tutte queste appropriazioni della figura di mio padre, poi ho capito che è una figura sentita vicina da tanti».È vero che iniziò a insegnare al carcere minorile, dove nessuno voleva andare?«Sì, all’Istituto Gabelli a Porta Portese a Roma. Per lui era una sfida in più. Ha sempre avuto un forte senso dell’avventura. Come quando viaggiò in Sudamerica, che allora non era dietro l’angolo».Come nacque il programma Non è mai troppo tardi?«La Rai chiese al ministero, che emanò una circolare che arrivò alla scuola elementare Fratelli Bandiera dove insegnava mio padre e lui ci vide l’ennesima avventura. Ai provini funzionò perché fece il disegno alla lasagna, come era solito in classe. In tv sapeva di rivolgersi a adulti del mondo popolare e contadino in cerca della licenza elementare».Poi insegnò l’italiano agli extracomunitari?«Sì, in tv e alla radio. Avrebbe potuto fare il gesuita tanto aveva la vocazione del maestro. Immaginava una scuola senza confini di censo e di colore. Si sentiva affine a Don Milani. L’ipotesi ventilata in queste settimane di più italiani che stranieri in classe gli avrebbe fatto battere i pugni sul tavolo. A casa nostra se volevi insultare qualcuno gli davi del razzista».E il ministero del Merito?«Non gli sarebbe piaciuto. Mio padre era interessato agli ultimi, a quelli che non partono da una condizione agiata. Il merito spesso è un’illusione».Era contrario a giudizi e pagelle?«Non vedeva bene il giudizio finale tra elementari e medie. I voti li scriveva sul registro, ma non li dava veramente. Non voleva far sentire i ragazzi definiti. Fece il timbro “Fa quel che può, quel che non può non fa” e lo sospesero. Si è molto frainteso sul significato: lui alzava l’asticella, non si accontentava».Oggi torna di moda la disciplina, suo padre era severo?«Lui creava situazioni interessanti in cui l’ordine si creava da solo, perché il disturbatore veniva zittito. Metteva i banchi in cerchio, non dava troppe regole, ma se era il caso diceva anche “fatela finita"».Gli italiani oggi avrebbero bisogno di lui?«Sì, ma non lo sanno. Una volta le persone semplici avevano rispetto per la cultura e volevano crescere. Oggi viene considerata un disvalore».Suo padre pensava che la sua opera non fosse sufficiente?«Non credeva all’idea di un demiurgo, ma si rendeva conto che il maestro e la cultura erano declinati socialmente. L’apparire è subentrato all’essere, e lui nonostante la tv era esattamente il contrario. Il più grande sforzo per lui fu superare la sua riservatezza. La sua prima trasmissione la vedemmo dai vicini perché non avevamo la tv e poi non fu un’urgenza per lui comprarla: lo fece dopo un anno».In casa che maestro è stato?«Come a scuola, divertiva e trasmetteva un senso di avventura. Ci portava al giardino zoologico o a fare i pupazzi di creta nella cava vicino Anzio. Una volta si presentò a casa con un riccio trovato per strada. Trasmetteva il piacere della lettura con l’esempio, come mia mamma anche lei maestra: Salgari, Buzzati, Calvino, Gadda e tra gli stranieri London, Melville e Faulkner. Aiutava nei compiti a casa, ma fino a un certo punto. E a scuola non li assegnava mai ai suoi studenti».