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 2024  aprile 08 Lunedì calendario

ROMA SANTA E ATTOVAGLIATA – DA SILVIO BERLUSCONI INSIEME A PAOLO VILLAGGIO, A MONTEZEMOLO E GIANNI AGNELLI, PASSANDO PER BERTOLUCCI CON L’OSCAR APPOGGIATO SUL TAVOLO. ALBERTO COLASANTI ("IL MATRICIANO") RACCONTA GLI ANEDDOTI SU VIP E SVIPPATI VARI CHE NEL CORSO DEGLI ANNI SI SONO SEDUTI A TAVOLA NEL SUO RISTORANTE IN PRATI, A ROMA: "ANDREOTTI ANDAVA A FARE IL BACIAMANO A MIA MADRE. LEI DICEVA: ‘VEDI QUANTO SONO GENTILI ‘STI DEMOCRISTIANI’” - MORAVIA ED ELSA MORANTE, CELENTANO CHE NON PAGAVA MAI, IL MEZZO LITRO DI VINO ROSSO DEL CARDINAL MARCINKUS... - VIDEO -

A Roma il cibo è sacro. Il vino pure. E la tavola ne celebra il rito. Così è chiaro che ce ne sia tanto di cibo e di vino – oltre a sesso ed eros, chiaro – nel docufilm che Mr. Dagospia (al mondo Roberto D’Agostino) insieme a Marco Giusti (critico e regista) hanno realizzato per la regia di Daniele Ciprì con la collaborazione di Paolo Sorrentino (produttore creativo): Roma santa e dannata.

Partiamo così proprio dal film per raccontare quella Roma santa e dannata e i personaggi che ci girano intorno (e dentro). In particolare, riavvolgiamo il nastro al racconto che Enrico Vanzina fa dell’apparizione dell’Avvocato al titolare del Matriciano, storico locale di via dei Gracchi (quartiere Prati) che insieme al Bolognese è ed è stato una delle insegne intorno a cui hanno orbitato e orbitano i mondi paralleli e convergenti di cinema, arte e politica.

Alberto Colasanti – terza generazione del Matriciano insieme alla sorella Rosa – aveva liquidato, con la promessa di trovargli un tavolo per due, Luca Cordero di Montezemolo, frequentatore abituale del locale. Racconta Alberto: «Lo avevo avvertito: “Stasera c’è casino, un tavolo te lo trovo, però devi aspettà”, gli dissi. Ma lui si presenta all’ora più ovvia per la cena e c’era davvero un gran casino. Poi mi giro, guardo verso l’ingresso e vedo Montezemolo con un altro signore.

Non ci volevo credere, era lui, l’Avvocato, Agnelli, nel mio ristorante. Non capisco più niente: corro tra i tavoli, caccio via una decina di clienti in attesa di sedersi, sdoppio due tavoli e mi fiondo da Montezemolo piantando il tavolo in mezzo alla sala. Alzo gli occhi, sorrido, abbasso un po’ la testa: “Avvocato, questo è il Matriciano”. Quelli sì che erano anni d’oro, i fantastici Ottanta».

Ma perché fantastici? C’era Reagan in Usa, c’era il Pentapartito, il “patto del camper” (il CAF, Craxi-Andreotti-Forlani) in agguato in Italia… «Fantastici perché la gente girava e giravano i soldi. E venivano a mangiare! Facevamo i doppi turni. Oggi dopo le 22.30 non viene più nessuno». La serata in cui Agnelli scopre il Matriciano è ancora scritta in caratteri dorati nel cuore di Alberto. «A un certo punto mi avvicino al loro tavolo e l’Avvocato mi sorride: «Mi dicono che lei è un grande amico di Chinaglia». Certo, rispondo. «Ma mi dicono che lei è anche un grande romanista». Mi ha toccato nel sentimento! Io – gli rispondo – sono un grande romanista e sono amico di Chinaglia».

Tanto amici che una mattina diedero vita a una gustosa scenetta con strascico, roba che oggi non sarebbe possibile vedere più se non in uno spot. «Ma si, era una quarantina di anni fa, io ero ancora giovanotto, avevo 44 anni o giù di lì. Ci ritroviamo qui davanti con Giorgio Chinaglia, Massimo Ranieri – con cui saremo stati comparetti tre-quattro volte tra figli e nipoti vari – e Adriano Celentano: cominciamo a fare un po’ di palleggi in mezzo alla strada. Poi si va a pranzo. Celentano mi ferma e mi fa: Alberto, avrei bisogno di farmi la barba. «C’è mica un barbiere qui vicino?» Così lo mando dal mio, qui dietro. Dopo qualche giorno mi vedo arrivare al ristorante il barbiere che mi domanda: “Alberto, ma la barba di Celentano chi la paga?”. Ecco, lui non paga mai!».

Il Matriciano è un luogo dove lo spazio-tempo di dilata nel corso di un secolo attraverso i ricordi e i racconti di Alberto Colasanti. Lui è il centro di questo sistema solare intorno al quale girano i protagonisti della mondanità romana. «Registi e attori erano di casa – racconta Alberto – Ricordo Anthony Minchella, una piacevolissima persona, il regista del Paziente Inglese. Poi, venivano Ridley Scott e Russel Crowe, una volta c’è stato pure Depardieu quando girava Cristoforo Colombo.

E poi i “vecchi”, da Robert Mitchum a Schwarzenegger, da Jaqueline Bisset a Hugh Grant con Sandra Bullock. Alberto Sordi veniva spesso insieme a un vecchio regista, Mario Bonnard che era sempre in compagnia di un biondino, il suo assistente. Un giorno si presentò Bonnard col bondino e mi domandano: "Ma hai visto il nuovo film?”. Quale film, chiedo io. E loro: “Per un pugno di dollari, è appena uscito”». […]

Il palcoscenico al 55 di via dei Gracchi era un vero e proprio teatro all’aperto. Qui mangiavano e si esibivano i nomi d’oro della politica. «Andreotti era ospite fisso. Arrivava e andava sempre a fare il baciamano a mia madre. Lei aveva la terza elementare, era affascinata da questo omaggio e ogni volta veniva da me: “Vedi quanto sono gentili ‘sti democristiani”, commentava, lei che per tutta la vita ha votato Scudocrociato – sorride Alberto – Qui venivano a cena Fassino e Damiano, Fini e Fisichella, La Russa ovviamente.

Ma il periodo più bello è stato quello in cui Il Matriciano era diventato un ritrovo per diversi scrittori. Elsa Morante con Alberto Moravia stavano sempre nella saletta in fondo con Pasolini che arrivava con due ragazzotti i quali non dicevano mai una parola, mangiavano e poi se ne andavano con lui. Moravia, però, era divertente. Ordinava una lombata di vitella, ma io facevo due passi e mi bloccavo perché ormai lo sapevo: subito mi chiamava e cambiava l’ordine, “Alberto, no scusami, portami un quarto di gallina”. E viceversa, altre volte ordinava la gallina e mi bloccava per cambiare l’ordine con una lombata, sempre così».

[…] “Addirittura, appena di ritorno dall’America, Bernardo Bertolucci portò qui la statuetta dell’Oscar che aveva preso per L’Ultimo Imperatore. Lui era un ateo e mi rimase impressa, quando morì, la sua bara, esposta in Campidoglio, fatta di assi di legno di cantiere”. […]

Alberto Colasanti nasce a Roma 84 anni fa. Nasce a Borgo Pio. «Pensa che una volta, parlando con Bonolis, mi disse che lui era nato nell’appartamento di fronte al mio, sulla stessa scala!», sorride il patron del Matriciano. Agli inizi degli anni ’20 del secolo scorso fu il nonno Luigi a trasferirsi a Roma, dopo la Grande Guerra.

«Faceva il cascherino, consegnava l’olio – racconta Colasanti – Portò a Roma tutta la famiglia: dormivano in sette in una grande stanza divisa da una corda, tre figli maschi da una parte e le due femmine con papà e mamma dall’altra parte. Pensa che mio padre veniva a lavarsi al ristorante, quando mio nonno rilevò quella che dal 1912 era un’osteria: vendevano vino e scaldavano i cibi che si portavano i fagottari chiedendo una piccola cifra, lo “scomodo”».

Un’usanza che negli anni d’oro del cinema rivive con un grande protagonista, nientepopodimeno che Marcello Mastroianni. «Si presenta qui con una specie di gavetta di alluminio, si siede e mi fa: “Alberto, mi puoi scaldare queste polpette coi broccoletti che mi ha portato sul set Sofia Loren? Non sono riuscito a mangiarle, ora me le posso gustare”. Ecco, sono stati momenti emozionanti».

Cinema a parte, anche la vicinanza al Vaticano non è irrilevante nella storia del Matriciano. «Qui, nei tempi d’oro, prima che venisse cacciato, veniva almeno un paio di volte a settimana a cenare il cardinale Paul Marcinkus, il capo dello Ior. Arrivava con una macchinaccia che mi chiedeva sempre di parcheggiare, si sedeva e ordinava sempre le stesse cose: zuppa di verdura e abbacchio accompagnati da mezzo litro della casa».

Frugalità insospettata da parte di uno dei più famigerati potenti della Chiesa che fu. «Poi, quando Marcinkus si dimise, veniva spesso monsignor Donato De Bonis (che è stato ritenuto il vero dominus dello Ior, grande amico di Cossiga – il quale lo chiamava Dontino – e di Andreotti cui per testamento lasciò i suoi soldi per “opere di carità e di assistenza”. ndr) in compagnia di Alberto Sordi. Perché il sogno segreto di Albertone era diventare un cardinale laico: era ossessionato da questo desiderio, era appassionato della Chiesa».

I rapporti più amichevoli, però, il Matriciano li stringe con gli uomini del cinema, mondo di cui lui stesso è un appassionato. Carlo Verdone – noto per la sua ipocondria che lui però ha sempre smentito affermando che si tratta solo di una passione per la medicina ereditata dalla sua famiglia – gli ha curato le ernie. «Una sera lo chiamo, ero piegato dal dolore alla schiena, ma lui mi dice che stava facendo un’intervista e che mi avrebbe richiamato dopo.

Mi squilla il telefono dopo neppure cinque minuti, era lui: è un vero appassionato di malattie e di cure, è la sua vera missione – sorride Alberto – E di fatto mi ha portato a guarire: mi disse di fare la respirazione diaframmatica e la ginnastica posturale. Mi è passato tutto. Lui sullo schermo è divertente, nella realtà però lo è molto meno, è uno serio». Il racconto passa così al rapporto con uno che invece divertente lo è davvero, nella vita.

«Roberto Benigni è uno spasso, qui ci è cresciuto in pratica. Pensa che agli inizi della sua carriera e cercava casa, lo aiutai io a trovarne una all’Aventino. Anzi, ce n’erano in vendita due, attaccate, e gli consigliai di comprarle entrambe, che era un’occasione. Lui però diceva di non avere i soldi. “Presto li avrai”, lo rassicurai. Ma ne acquistò una sola. E se ne pentì, perché dopo qualche anno voleva comprarla, ma gli chiesero il triplo e desistette». […]

Di “miti” ne son passati tanti dai tavoli del 55 di via dei Gracchi. «Aldo Fabrizi chiedeva sempre le patate a tocchetti», sorride al ricordo Alberto. Ma non ha mai avuto il desiderio di cambiare cucina? Di fare qualcosa di altro? «No – fa lui senza neppure pensarci – Le ricette sono quelle di mio padre. Non ci penso proprio a cambiare. Gli ingredienti, però, sono sempre di prima scelta: la carne la prendo da Feroci, il pomodoro è Mutti, il pecorino viene dal caseificio di Fulvi a Monterosi che tra l’altro era il genero der Viperetta (al secolo Massimo Ferrero che da autista divenne uno dei re del cinema e fu anche patron della Sampdoria. Ndr) che tra parentesi si prese la squadra non solo senza sborsare una lira ma facendosi dare dall’ex proprietario anche qualche milione di euro per tirare avanti. […]

Nel racconto di questa Roma dove convivono allegramente sacro e profano, non può mancare un’apparizione di Silvio Berlusconi che delle cronache politiche e mondane della Capitale è stato protagonista per un ventennio. “Una volta, stavamo a’na festa a casa di Sandra Carraro – racconta Roberto D’Agostino – Berlusconi mi prese: ‘Ti devo parlare’. Che me devi dì? chiedo. ‘Senti, dimmi la verità: ma tu sei tatuato anche sul pisello?’, mi domanda. Gnente… a lui non je ne fregava gnente di quello che je scrivevi, di quello che je potevi dì, come lo prendevi in giro… Lui gnente, anzi conquistava tutti. Era fissato con questa idea di riuscire a essere amato da tutti…”. Ma uno (forse uno solo?) il Cavaliere non riuscì a conquistare.

«Sai quante volte veniva a cena qui con Paolo Villaggio? Quante volte ha cercato di portarselo nelle sue tv… Paolo era davvero un personaggio, stranissimo, aveva un mondo tutto suo. Pensa, che venivano qui in tre, lui, Federico Pantanella, il produttore, e un altro amico loro: ordinavano tre ossibuchi e basta, poi si alzavano e andavano dal Bolognese a piazza del Popolo a ordinare altri tre ossibuchi, poi magari al Moro dietro Fontana di Trevi e ne ordinavano altri tre.

Giocavano a chi faceva l’ossobuco migliore… Quando veniva qui, Villaggio mangiava e non pagava, mai. Mi diceva di passare dal portiere dell’Excelsior a fine mese. Ogni volta, mi presentavo al signor Chiesa che mi consegnava un suo assegno personale, a nome suo, per saldare il conto di Villaggio. Ma lui pagava, eh. Era solo un suo vezzo. Poi una sera capitò qui, un po’ malandato. Si vedeva che non stava un granché. Mi avvicino e lui mi anticipa subito: “Albe’, stasera non ho i soldi per pagare la cena”. E chi se ne importa, gli rispondo io, con tutti quelli che mi hai dato!

“Ecco, bella risposta – fa lui – Allora, dammi pure venti euro per il taxi”. Dopo pochi giorni se ne è andato. Grande personaggio – guarda l’orologio, il Matriciano, sono le 12.20 – Aoh, ma ‘emo finito?», domanda. Si vede che ha un’urgenza. Si alza, va alla cassa, cede il comando alla figlia e si avvia al suo tavolo, in saletta, dove mangiavano Pasolini, Morante e Moravia. Non sapremo mai se si è fatto un ossobuco di Feroci o un piatto di De Cecco col guanciale di Amatrice. Ma non ha importanza. Lo spazio-tempo, qui, si è fermato da un secolo e da un secolo tutto si ripete, sempre uguale.