Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  aprile 06 Sabato calendario

Intervista alla nipote di Indro Montanelli


Nel 2019 fu il colore rosa; l’anno dopo, ampi fiotti di rosso (stesso colore del 2012); due giorni fa, una colata di viola, giù dalla testa: terza variante cromatica che investe la statua dedicata a Indro Montanelli, nei giardini milanesi che portano il suo nome, cinti dalla cancellata alla quale s’aggrappò il 2 giugno 1977, con le gambe ferite dai proiettili delle Brigate Rosse. E così a Milano qualcuno si chiede se forse quella statua, diventata ormai bersaglio quasi sistematico (con riferimento alla sposa bambina dodicenne che Montanelli ebbe durante la guerra coloniale in Eritrea), non dovrebbe forse, in qualche modo, esser protetta (nel 2019 i «Sentinelli» chiesero al consiglio comunale la rimozione della statua, e Giannelli sul Corriere disegnò un passerotto sulla spalla del giornalista, che sbirciava cosa stesse battendo sulla sua Lettera 22: «È uno spasso! – recitava la didascalia – Sta scrivendo un corsivo sui Sentinelli»). Comunque, proteggere la statua è un’ipotesi? «Ma certo che no. Non avrebbe senso», risponde Letizia Moizzi, nipote di Montanelli, presidente della Fondazione dedicata al giornalista.
Perché?
«Ha avuto la scorta da vivo, per le Br, per le pistole vere. Qualcuno dice che Indro non avrebbe mai voluto una statua. Lo credo anch’io. Figuriamoci una statua “scortata”».
Imbrattamenti e vandalismi però sono ricorrenti.
«E bisognerà continuare a ringraziare i tecnici del Comune, che avranno pur altro da fare, ma sono sempre solerti e attenti nella pulizia».
Perché secondo lei quella statua continua a essere un obiettivo?
«Ricordate come si chiamava Indro di terzo nome?».
Francamente no.
«Schizogene. Non lo sapevamo neanche noi. L’abbiamo scoperto dopo la morte, grazie a un vecchio documento trovato in una parrocchia, di quelli scritti in quel corsivo antico...».
Cosa significa?
«Generatore di separazione, che nell’intento paterno era generatore di polemiche. Il padre era molto colto e scelse chissà perché quel nome, coniato dal greco antico. Forse ebbe un lampo di istintiva lungimiranza per il destino del figlio».
Il destino dovrebbe terminare la sua opera con la morte.
«Indro quel nome l’ha incarnato benissimo, e oggi Schizogene acquista nuovo significato. Colui che genera polemiche: succedeva quando era vivo, succede ora da morto».
Come dire, resta un simbolo a portata di mano?
«La statua è stata attaccata con vernici colorate o no, gli imbrattamenti sono stati rivendicati o no, e più o meno ideologizzati. C’è stato un po’ di tutto, una volta anche sulla targa dei giardini. Ma con un filo unico: persone che cercano i cinque minuti di popolarità, per far emergere quel che sono, non quello che vogliono dire. Potrebbero fare altro, dire altro, andare a fare enormi imbrattamenti altrove. Ma non li filerebbe nessuno».
Se è un simbolo, è molto esposto.
«C’è un po’ di emulazione. E poi la statua è così lucida: fu una sfida per lo scultore nella lavorazione del bronzo, usò una tecnica più complessa ma che rende la creazione più brillante. Anche per questo forse nei giardini richiama attenzione».
Altre statue sono su un piedistallo più alto, ma di recente a Milano sono state comunque imbrattate anche quelle.
«Beh sì, la statua di Indro è facilmente raggiungibile, un po’ alla portata di chiunque passi lì vicino. Devo dire che in questo lo rappresenta molto. Indro era e voleva essere così, alla portata delle persone».