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 2024  aprile 07 Domenica calendario

Intervista a Fabiano Fabiani:

Fabiano Fabiani
Fabiano Fabiani, 94 anni a maggio, ai vertici di Rai, Iri, Autostrade, Finmeccanica. Come ha iniziato?
«All’inizio degli anni Cinquanta facevo il vice alla pagina del cinema della Voce Repubblicana. Il titolare andava a vedere i film belli, a me toccavano quelli brutti. Il capo era un severissimo Alberto Ronchey, che poi sarebbe diventato uno dei miei quattro amici».
Gli altri tre?
«Ettore Scola, conosciuto alle elementari, quando da Volterra ci eravamo trasferiti a Roma, nel 1941. Ebbe un bruttissimo incidente che lo tenne a casa per mesi, andavo a trovarlo e facevamo i compiti assieme. Sarebbe diventato il mio testimone di nozze. Quando entrò al Marc’Aurelio, capitava passassimo le notti nella redazione della rivista, di cui Ettore aveva le chiavi. Con noi c’era Alberto Sordi, bravissimo negli scherzi telefonici: una sera chiamammo il direttore-editore Vito De Bellis, Sordi imitò la voce di un fantomatico investitore tedesco che voleva comprare il giornale a patto che l’affare si chiudesse nel giro di poche ore. Lo spedimmo in piena notte a Ciampino, dove ovviamente l’assonnato De Bellis non trovò nessuno».
PUBBLICITÀNe mancano due.
«Eugenio Scalfari. Fui io a fargli incontrare Indro Montanelli. Una sera ero in giro con Eugenio; mia moglie Lilli era a cena a casa di Sandra e Franco Carraro, dove c’era anche Indro. Convinsi Scalfari a raggiungerli e ci fu l’incontro».

Con la moglie Lilli nel 2019 (Guaitoli)
Come fu?
«Molto freddo. Montanelli disse: “Io sono più bravo a scrivere, Eugenio è più bravo a fare l’editore”».
E Scalfari?
«Stimava Montanelli come giornalista, ma lo detestava per le sue idee politiche».
Manca il quarto amico.
«Nino Andreatta. Nell’agosto del 1982, poche settimane dopo la morte di Roberto Calvi a Londra, lui era ministro del Tesoro. Andammo assieme a piazza del Gesù e davanti alla sede della Dc mi disse “aspettami qua che ho appuntamento con la trimurti”, cioè Fanfani, Andreotti e Piccoli. Lo vedo uscire poco dopo. Alla trimurti aveva detto che doveva comprare il tabacco per la pipa e sarebbe rientrato subito. A me disse: “Andiamo al ministero, devo firmare al più presto la liquidazione del Banco Ambrosiano”. La trimurti l’Ambrosiano lo voleva salvare».
Che cosa comportava un no detto a un democristiano di potere?
«Quando negli anni Sessanta diventai direttore del Telegiornale della Rai, Ettore Bernabei mi disse: “Fabiani, guardi che adesso le telefoneranno tutti. Lei risponda solo al presidente del Consiglio e al ministro degli Interni”. Poi mi si avvicinò e all’orecchio aggiunse: “...E ovviamente al segretario della Dc”».
Al Telegiornale lei era stato tra i pionieri, sotto la guida di Vittorio Veltroni.
«Un grande direttore, una storia tragica. Si ammalò, leucemia fulminante, e morì nel giro di pochissimo, lo stesso giorno del naufragio dell’Andrea Doria, 26 luglio 1956. Andammo a casa sua per le condoglianze; seduto sul seggiolone c’era un bambino di appena un anno, il figlio Walter».

Walter Veltroni (a sinistra) e Fabiano Fabiani nelo 2007 quando era presidente di Acea
Dal Telegiornale sarebbe andato via più di dieci anni dopo, da direttore, cacciato perché era contrario alla guerra in Vietnam.
«Mica solo io. Era contrario Moro, era contrario il Papa, Paolo VI».
Come andò?
«Mandai in onda a Tv7 un servizio di Furio Colombo sui bambini vietnamiti bruciati dal napalm. Il presidente della Repubblica Saragat, schieratissimo con gli americani, lo vide in tv assieme al consigliere d’ambasciata Usa, che era suo ospite al Quirinale. Il giorno dopo il ministro Paolo Emilio Taviani, che mi ha sempre aiutato, disse: “Non si parlava granché bene di quel servizio...”. Iniziò una trafila per mandarmi da un’altra parte. Rifiutai la radio, dicevo no a tutto, finché Bernabei mi spiegò che un posto prima o poi dovevo accettarlo. Finii a fare il capo dei programmi culturali».
Moro com’era?
«Si vedeva a occhio nudo che era diverso da tutti gli altri. Aveva un’altra statura, anche morale. Però si sentiva isolato, tenuto all’oscuro. Una volta lo incontrai, era presidente della Dc, e mi confidò: “A me non dicono mai niente”».
Fanfani?
«Una sera mi chiesero di raggiungerlo a casa sua, sulla Trionfale. Me lo ritrovai davanti in vestaglia, che stava dipingendo. Prima di congedarmi mi indicò un disegno: “Fabiani, prenda pure quello, glielo regalo. È il più brutto”. Ce l’ho ancora, nella mia casa di Capalbio. Anni prima, nel 1958, tramite Franco Maria Malfatti mi avevano chiesto di prendermi un’aspettativa dalla Rai per lavorare alla campagna elettorale della Dc. Avevano mandato in Germania uno dei loro, Bartolo Ciccardini, a studiare la comunicazione della Cdu. Al ritorno di Ciccardini partorirono un manifesto in cui si vedeva una strada lunga, con la scritta grande “Democrazia cristiana”. Toccò a me portarlo a Fanfani. Fanfani prese un altro foglio, fece lo schizzo di un’altra strada, ci disegnò in mezzo il tronco di un albero e col pennarello scrisse: Partito comunista italiano, un tronco marcio sulla strada del progresso».
Bernabei teneva testa a Fanfani?
«Nessuno teneva testa a Fanfani. Tranne la seconda moglie, Maria Pia».
Poi venne il Sessantotto.
«A me il Sessantotto stava sulle palle».
Perché?
«Perché era disordine. L’ordine in democrazia può essere cambiato con un altro ordine; mai col disordine».
Al telegiornale della Rai c’era Tito Stagno.
«Grande giornalista, salutista, Carlo Mazzarella lo chiamava “il sano immaginario”. Faceva la sauna seminudo, a occhi socchiusi, e una volta mi divertii a infastidirlo; si seccò molto. Poi però, anni dopo, mi regalò un libro con questa dedica: “Ma perché quella volta in sauna non sei andato sino in fondo?”».
Scherzava?
«Ovviamente».
In Rai lei fece il Gesù.
«A metà degli anni Settanta, Brando Giordani ebbe l’idea di una serie sulla vita di Gesù. Con il magnate della Itc, Lew Grade, decidemmo di affidarla a Ingmar Bergman. Tramite Federico Fellini, riuscii ad avere un appuntamento col maestro, a Stoccolma. Bergman mi consegnò quattordici pagine di soggetto che però, più che sulla vita di Gesù, erano sulla Passione, gli ultimi giorni. Partii tutto felice per l’America alla ricerca di soldi, sicuro che col sì di Bergman...».

Fabiano Fabiani (a sinistra) con Roberto Rossellini nel 1972
E gli americani?
«Non ne vollero sapere. Si sarebbe fatto con i loro dollari a una sola condizione: che il regista fosse Franco Zeffirelli».
Gesù di Nazareth, un successo planetario.
«Zeffirelli ogni volta che mi vedeva mi insultava: “Te non avevi capito un c..., volevi fare quella roba lì con Bergman!”».
Mai tentato da Berlusconi?
«Fine anni ‘70. Ci vediamo a Roma e mi propone di andare a lavorare con lui. Io gli dico di no, parlo della famiglia, dei quattro figli, della difficoltà a spostare tutto a Milano. Mi guarda negli occhi e mi chiede: ma tu, questi figli, li picchi? Rispondo di no, ma certo se torno a casa e mia moglie mi informa che si sono comportati male, forse un piccolo scappellotto... Si fa serio e replica: “Guarda, non farlo mai, perché queste cose ai bambini rimangono”. E lì finisce. Vent’anni dopo lo incontro al ricevimento dell’ambasciatore americano Bartholomew, lui era già stato presidente del Consiglio, con me c’è mia moglie, gliela presento. Berlusconi la guarda e le fa: “Suo marito li picchia ancora i bambini?”. Passano gli anni, lo ritrovo all’Antitrust, lo saluto e lui, prontissimo: “Adesso non li puoi più picchiare, i bambini, perché si sono fatti grandi, eh?”».
Berlusconi fu intercettato mentre parlava di lei al telefono con Saccà, allora dirigente Rai.
«Era il 2007, secondo governo Prodi. Padoa-Schioppa mi nomina come rappresentante del Tesoro nel cda della Rai. Con Saccà Berlusconi parla di soubrette e attrici da raccomandare. Esce il mio nome, visto che ero stato indicato dal governo nel consiglio, e Saccà dice che comunque di me in azienda si parlava bene. E Berlusconi: “Sì, Fabiani lo conosco, era uno che picchiava i figli!”. L’intercettazione uscì sui giornali».
In Finmeccanica aveva dovuto trattare anche con Draghi.
«Eccezionale presidente della Bce, eccezionale come presidente del Consiglio. Ma quando era direttore generale del Tesoro con Ciampi mi fece impazzire».
L’era delle privatizzazioni.
«Con qualche errore. Pensi alla telefonia e all’acciaio: lo Stato ha venduto, poi è stato costretto a ricomprare».
Le piace Giorgia Meloni?
«L’economia con Giorgetti è guidata bene, nulla da dire. Ma Meloni non mi convince. Si agita troppo».
Chi la sfiderà alle prossime Politiche, Conte o Schlein?
«Nessuno dei due».
E chi, secondo lei?
«Paolo Gentiloni».
Come si arriva a 94 anni così lucidi?
«Un po’ grazie alla genetica: mamma è arrivata a 95, papà a cento. Un po’ grazie al diabete».
Come grazie al diabete?
«Quando l’ho scoperto, a 75 anni, ho iniziato a mangiare meno».
Come immagina l’aldilà?
«Sono cattolico. Paradiso di qua, inferno di là».