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 2024  aprile 07 Domenica calendario

Intervista ad Alfonso Signorini



D irettore, oggi sono 60. Auguri! Come li festeggia?
«Con 60 amici che mi hanno accompagnato nel mio percorso di crescita».
Cena stellata?
«No, pranzo della domenica nella vecchia trattoria di Seregno dove andavo con i miei, Al Pertegà. Ho fatto rifare il menu della mia infanzia: risotto con salsiccia, carrellone dei bolliti, e ho dato al cuoco la ricetta della torta di mia nonna Armida».
È il primo compleanno senza Berlusconi.
«Proprio così. Gli assenti giustificati sono due. Lui e Maria De Filippi, che registra pure la domenica mattina».
Alfonso Signorini risplende nonostante il raffreddore nel salotto del suo appartamento milanese dietro Santa Maria alle Grazie, dove andava a pregare da studente davanti alla madonnina con il manto. Soffitti alti, un gran coda Steinway al centro, due putti agli angoli ci ascoltano curiosi, soprattutto quando racconta la storia di questa casa.
Da quanto ci vive?
«Da un anno. Ed è la cosa di cui sono più orgoglioso. Da ragazzo, quando venivo all’università e da Cadorna percorrevo questa strada a piedi, guardavo esattamente il balcone del mio appartamento e sognavo a occhi aperti».
Proviamo a raccontare la sua storia per immagini? Partiamo dal primo decennio.
«Ci sono io che pedalo per le vie di Cormano sulla mia Graziella. Prima a quattro ruote, poi a due, poi truccata con le carte da gioco per fare rumore quando i miei amici avevano tutti il Ciao. Mi ha accompagnato nella mia crescita. Immaginavo di essere un esploratore nelle giungle del maharaja, tra le campagne inglesi, sulle Alpi svizzere».
L’adolescenza?
«Io nascosto a leggere in cantina, con il terrore che mi scoprissero i vicini e lo dicessero a mia madre, perché a lei raccontavo che ero fuori con gli amici. Ho letto di tutto, in quella cantina: collezionavo tessere della biblioteca, ne facevo 5 o 6 l’anno».
Vent’anni.
«Elettrocardiogramma».
Prego?
«Il 7 dicembre del 1983 ebbi il mio primo attacco di panico in coda alla Scala per un posto nel loggione. Da allora entrai nel tunnel della nevrosi, ero convinto che sarei morto per un attacco di cuore, passavo da un medico all’altro. Del resto, mia madre mi aveva sempre protetto perché mi era stato diagnosticato un soffio al cuore, praticamente una sciocchezza, ma questo lo so oggi. Finché non mi feci coraggio, andai in palestra e salii su un tapis roulant: o muoio o rinasco».
Non morì. I 30 anni?
«Mi affrancai dalla famiglia con il lavoro. Prima come insegnante al Leone XIII, poi nel mondo del giornalismo. I miei erano disperati».
Perché?
«Con tutti i sacrifici fatti per farmi studiare... Sognavano un figlio medico, avvocato, commercialista, astronauta, sacerdote, qualunque cosa ma non l’insegnante o, peggio, il giornalista! In quei 30 anni mettiamoci anche il travaglio sentimentale, con la scoperta dell’omosessualità».
Passiamo ai 40.
«Stavo quasi per compierli e mi rivedo mentre faccio una riunione interminabile con Piero Chiambretti e Irene Ghergo per Chiambretti c’è all’Hotel dei Mellini a Roma. La mia carriera televisiva comincia allora».
Il momento difficile
Mi trasferii a Roma e mi ritrovai solo, con il telefono che non squillava più. Mi salvò D’Agostino che organizzò una cena con Rossella
I 50 anni?
«Sono il direttore di Chi. Nessuno avrebbe scommesso su di me: non ho mai preso un menabò, mai partecipato a una riunione di redazione o incontrato il sindacato. Sono sempre stato la Vispa Teresa».
Le è dispiaciuto lasciare la direzione, un anno fa?
«Ma no, è stato tutto naturale. E poi continuo a mantenere un rapporto diretto con i lettori, oltre a lavorare sui contenuti con il direttore Massimo Borgnis. Pensavo invece che sarei stato più libero per fare la pubblicità, ma non mi ha cercato nessuno, nemmeno Poltronesofà, che sarebbe il mio sogno!».
Obiettivi per i 60?
«Intanto mi sono regalato la regia della Bohème all’Arena di Verona il 19 e il 27 luglio. Per me è un traguardo significativo, perché lì a 9 anni avevo visto la mia prima opera: una Madama Butterfly».
Chi la portò?
«Zia Ester, la zitella di casa, con mio padre. D’estate andavamo in vacanza in Val Seriana. Per l’opera partivamo la mattina presto e alle tre eravamo già in coda per entrare nella seconda gradinata».
Ora si sposa?
«Visto che nella precedente intervista che abbiamo fatto io e lei Paolino (Galimberti, ndr) l’ho lasciato, ora vorrei rimediare...».
Ma come? Lui lo ha scoperto leggendola?
«Ehm, sono stato un po’ vile... Peraltro glielo disse il portinaio, che invece il Corriere l’aveva letto eccome!».
Direttore non si fa!
«Lo so. Ma è servito, perché ci siamo ritrovati. E ne approfitto per fargli sapere che sposarci sarebbe il passo naturale nel nostro cammino insieme».
Ora facciamo un bilancio: il momento più difficile?
«Sicuramente quando ho lasciato Mondadori, dove facevo l’inviato per Chi, deludendo Silvana Giacobini che mi voleva bene, e mi vuole ancora bene, come a un figlio. Ma mi ero un po’ montato la testa. Mi trasferii a Roma, dove le cose non andarono come avevo sperato. Mi ritrovai solo con il mio bassotto Scoop e il telefono che non squillava più. Mi salvò Roberto D’Agostino, che organizzò una cena con Carlo Rossella, ai tempi direttore di Panorama, e così rientrai in Mondadori».
Cosa l’ha più sorpresa?
«Conoscere persone straordinarie, a partire da Berlusconi, che ha lasciato un grandissimo segno nella mia vita. E poi tanti altri. Pavarotti, mio grandissimo amico. Il Principe Carlo, che mi consigliò un ristorante toscano sotto casa sua, a Clarence House. Mastroianni, che mi diede una lezione preziosissima».
Quale?
«Che il tempo è importante e non lo puoi sprecare».
Ci pensa alla pensione?
«Io? No, grazie. Voglio mordere la vita fino all’ultimo!».