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 2024  aprile 07 Domenica calendario

Indagini, arresti e dispetti. Il gigante India alle elezioni (ma la democrazia trema)


Un enorme striscione campeggiava al comizio dell’opposizione riunita giorni fa a New Delhi contro il partito al governo, il Bjp del premier Narendra Modi: «Il Bjp contro la democrazia» recitava. A ribadire che in ballo nelle elezioni in India (in sette round dal 19 aprile all’1 giugno) non c’è soltanto la scelta del governo ma la sopravvivenza dello stato di diritto. L’ultima volta che un comizio elettorale si è concentrato su una narrazione simile è stato durante le politiche del 1977, quando Indira Gandhi fu sconfitta da una coalizione di partiti nata apposta per aggiudicarsi la consultazione. Ci riuscì, formando il primo governo dell’India indipendente non guidato dal Partito del Congresso. Ma il 2024 non è il 1977, Narendra Modi non è Indira Gandhi. E l’opposizione, pur riunita anche questa volta in un’alleanza in vista del voto, sta arrivando con le ossa rotte all’appuntamento, sfiancata non soltanto da rivalità e divisioni interne: colpi bassi e scambi di accuse feroci tra i due schieramenti stanno infiammando la corsa. E questo malgrado i sondaggi diano il partito del premier in abissale vantaggio, come se i giochi fossero già fatti. A Modi però non basta vincere, punta a una super maggioranza con i suoi alleati, a 400 seggi su 543. «Se il Bjp vincerà queste elezioni truccate e cambierà la Costituzione, il Paese sarà in fiamme. Questa non è un’elezione ordinaria», ha tuonato Rahul Gandhi, nipote di Indira e figura di spicco dello storico partito peso massimo della politica indiana ma lontano dalle stanze del potere da dieci anni. «È questo il linguaggio della democrazia?», ha reagito il premier il giorno dopo da un palco sotto l’Himalaya.
La tensione tra i due schieramenti è andata oltre ogni limite quando l’erede dei Gandhi a febbraio ha accusato il governo di usare l’Agenzia delle entrate per congelare i conti bancari del suo partito e impedirgli così di fare campagna elettorale. Poi il 21 marzo un nuovo allarme: «Stiamo affrontando un altro assalto ai nostri conti», ha avvertito, parlando di «terrorismo fiscale». Le autorità hanno chiesto l’equivalente di 426 milioni di dollari al Congresso per presunte irregolarità risalenti a 5 e a 20 anni fa.
Poche ore dopo, quando era già notte, la polizia ha fatto irruzione nella casa del leader dell’altro grande partito dell’opposizione, il Partito dell’uomo comune (Aap): Arvind Kejriwal, governatore della regione di New Delhi e grande critico di Modi, è stato arrestato mentre si accingeva a iniziare la campagna elettorale. Kejriwal è stato preso in custodia dall’Agenzia per i crimini finanziari, con l’accusa di aver accettato tangenti per 12 milioni di dollari due anni fa, quando la sua amministrazione sperimentò per pochi mesi la privatizzazione della vendita dei liquori.
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Il caso Kejriwal però si sta rivelando un boomerang per il partito di Modi dopo che sono stati resi pubblici acquirenti e destinatari dei bond elettorali, su ordine della Corte Suprema. Non soltanto è emerso che a beneficiare di questo sistema di finanziamento dei partiti introdotto nel 2018 è stato il gruppo del premier (nelle cui casse sono finiti metà dei quasi 2 miliardi di dollari donati). «Siamo il partito più grande del Paese, è ovvio che sempre più persone scommettano su di noi», hanno spiegato dal Bjp.
A suscitare scalpore è che quasi la metà delle 30 maggiori aziende donatrici si trovava indagata da agenzie governative nel periodo in cui acquistava i bond. L’opposizione è partita all’attacco: l’esecutivo ha utilizzato le agenzie per estorcere denaro. Non solo. Tra i super donatori c’è Sharath Reddy, il manager dei liquori diventato poi il super testimone contro Kejriwal. Accusato dagli investigatori federali nel 2022 di aver corrotto il partito di Kejriwal in cambio di licenze per gli alcolici, Reddy ha poi acquistato bond elettorali per 6,6 milioni di dollari destinati al Bjp e le accuse contro di lui sono cadute. «Come si può arrestare qualcuno solo sulla base della dichiarazione di un coimputato che poi, con l’appoggio dell’Agenzia investigativa, si trasforma in accusatore e viene perdonato per i suoi crimini?», protestano i critici. Martedì scorso il partito di Kejriwal ha incassato la libertà su cauzione di Sanjay Singh, altro leader di spicco indagato sempre nell’ambito del liquorgate. A intervenire è stata la Corte Suprema perché l’indagine scaturita dalle dichiarazioni di un pentito non ha trovato altri riscontri.
Dal 2014, 25 leader dell’opposizione accusati di corruzione sono passati alla maggioranza, dopodiché per 23 di loro le indagini si sono arenate. Il Congresso ha cavalcato la vicenda, dando al Bjp della «lavatrice».