la Repubblica, 7 aprile 2024
Intervista a Biagio Antonacci
Adagio Biagio era il titolo del suo secondo album, 1991. Un consiglio dato a sé stesso, ignorato per anni, che alla fine è tornato prezioso. Dopo tanti successi si è preso cinque anni di pausa discografica prima di pubblicare, a gennaio, il nuovo album L’inizio. Ora è appena uscito il singoloLasciati pensare e Biagio Antonacci continua a vivere tra Bologna e la zona di Cesenatico dove (da buon geometra) ha costruito una casa in mezzo alla natura seguendo le linee della bioedilizia e ha messo in piedi una tenuta con animali e piante, dove produce olio e vino e coltiva la sua passione per le moto d’epoca. Un ritorno che avrà una coda live, con una serie di concerti a giugno in luoghi di grande suggestione, lo Sferisterio di Macerata, Caracalla a Roma, il Porto Antico di Genova, l’Anfiteatro degli Scavi a Pompei («Come i Pink Floyd!», scherza), il Fossato del Castello a Barletta e il Vittoriale a Gardone Riviera. «Sono stufo dei luoghi comuni del turismo, se qualcuno posta una foto di un posto qualsiasi, tutti accorrono. Voglio riempire luoghi belli e a volte poco conosciuti».
Ha ripreso con una sorta di elogio della lentezza come “Lasciati pensare”.
«Era l’ultima canzone scritta per il disco e di solito è quella benedetta. In quest’epoca di frenesia, la prima cosa che ti dicono è che un pezzo così non passa in radio. Ma io avevo fatto quattro singoli molto ritmati, mi sono permesso dopo 30 anni di carriera di tornare indietro, fare una canzone che mi piaceva. Le radio mi stanno premiando».
La modernità le piace. Anni fa ha collaborato con i Club Dogo, nel nuovo disco ci sono Benny Benassi, Giorgio Poi, Tananai che canta un suo classico, “Sognami”. Tutti artisti che vanno veloci.
«Quando c’è da correre, corro, non sento l’età. Ma resto un cantautore.
Ho sempre composto canzoni con quell’incertezza che accomuna tutti gli autori: quando ho iniziato ci volevano tre mesi, era tutto più lento.
Le canzoni arrivano senza senso, regaliamo immagini, sogni».
L’infanzia a Rozzano, un “posto difficile”. Oggi si parla di periferie complicate, lei è stato il primo. È legato a quei luoghi?
«A certi posti resti legato, c’è una parte di te che non è mai partita. È rimasta lì a innamorarsi delle fragranze delle anime che incontravi nei cortili. La periferia è un diffusore di sogni. Oggi sto bene anche fuori da lì. Rispetto agli artisti giovani, non sarei mai entrato a Rozzano con la Porsche o il Rolex, i miei si sarebbero arrabbiati. Oggi non hanno sensi di colpa».
Diplomato geometra, poi carabiniere in servizio a Garlasco. Lì va a cercare Ron e inizia tutto.
«Ero un fan della scuola di cantautori bolognese, Ron era legato a Dalla. Mi assegnarono a Garlasco, un pomeriggio usciamo in pattuglia e l’appuntato fa “quella è la macchinadi Ron”. Ci affiancammo, l’appuntato disse a Ron che ero un suo fan. Gli dissi che scrivevo canzoni.
“Portamele!”. Mi presentai da sua mamma con 4 pezzi fatti in casa e un mazzo di fiori. Ron mi chiamò, disse che c’era ancora da fare ma aggiunse: “Quando canti hai qualcosa da dire”.
Mi rimase nel cervello per sempre».
Qualche anno dopo, a Roma, un episodio che le ha dato la sensazione di avercela fatta.
«Stavo andando in radio, il tassista ascoltava Liberatemi, dice “aho’, questo è forte”. Gli dico “guarda che sono io”, si gira, mi guarda: “Anvedi, ma limort …”. Scesi dal taxi, mi haportato al bar e urlava a tutti “aho’, questo è Antonacci, guardate chi v’ho portato”. Ma è nel 1992 che ho capito di avercela fatta: c’era un concerto a Roma contro la droga, con ospiti importanti. Di solito, agli annunci, gli applausi per me erano mosci. Quella volta arrivò un boato».
Faceva ancora il geometra?
«Sì, non volevo lasciare il lavoro. Poi il mio capo mi chiese quanto prendevo a data, era più della mensilità, e mi disse di dedicarmi alla musica: “Io ci sarò sempre, semmai ne riparliamo”. Ma il successo mi ha limitato: avrei dovuto viaggiare, leggere, studiare le lingue».
Per anni le hanno tirato i reggiseni sul palco, veniva assalito in strada. È mai caduto nel delirio di onnipotenza?
«I reggiseni li ho sempre visti come un gioco, un modo per dire “mi piaci”. L’onnipotenza non l’ho vissuta come avrei potuto: da giovane avevo la forza ma ero timido e non la consideravo».
Timido: curioso per una popstar.
«È qualcosa che ti porti dentro e cerchi di superare. Da bambino balbettavo, cantando ho superato l’ostacolo. Vasco Rossi mi disse: “Ho fatto il rock per evitare di cantare le ballate, mi vergognavo”».
Con Sanremo non è mai andata benissimo…
«Ma è stato “l’occasione” di ricevere dei no, di non vincere subito e poter vincere nel tempo».
Ha dedicato un disco a Lucio Dalla e la prima volta che ha incontrato Pino Daniele non riusciva nemmeno a salutarlo.
«Ero un fan del cantautorato e Dalla era “il” cantautore, un artista sperimentale con il coraggio di fare pop e di essere estremo un po’ come Battisti. Con Pino Daniele non si è instaurato subito un rapporto, io timido e lui riservato, ci siamo frequentati e apprezzati negli ultimi anni anche grazie alla canzone scritta insieme One Day. A una cena a casa sua, a Roma, con la chitarra avevo intonato una melodia e Pino ha creato la parte dei testi. Mi disse: “Non mi importa cosa vogliamo dire, facciamo suonare bene le parole”».
I suoi amici sono Laura Pausini e Eros Ramazzotti.
«Laura l’ho conosciuta tanti anni fa quando ho scritto per leiTra te e il mare e poiVivimi, è iniziata un’amicizia molto bella. Eros è un grande amico. Siamo entrambi del 1963 e arriviamo dalla periferia, due caratteristiche che ci accomunano, non le sole. Sono forse i miei migliori amici in questo ambiente».
Parla spesso dei suoi sensi di colpa.
«Sono la grande malattia, ma sto imparando a debellarli».
A suo padre non è riuscito a dire ti voglio bene…
«Avevo paura che sul letto di morte capisse che se ne stava andando, che vivesse le mie parole come un addio».
Come si sente in questo momento storico complicato? Mai pensato di scrivere qualcosa?
«L’animale peggiore, l’uomo, non cambierà mai, assetato di potere, controllo, dominio, vendetta. La cosa peggiore è che rende tutta l’umanità uno spettatore impotente. È questo l’aspetto che fa più male. Scrivere? È difficile trovare le parole».