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 2024  aprile 06 Sabato calendario

Merlo parla di Scalfari

Per capire Eugenio Scalfari bisogna andare al casinò di Sanremo. Parola di Francesco Merlo che di Scalfari è stato un grande amico «della maturità». E che al fondatore diRepubblica, che oggi avrebbe compiuto 100 anni, ha dedicato, insieme con Antonio Gnoli, la biografiaGrand Hotel Scalfari. Otto mesi di incontri pomeridiani, a casa di Scalfari, tra cazzeggio e massimi sistemi; otto mesi durante i quali l’inventore dei giornali ha aperto tutti i cassetti e non solo metaforicamente. Una bio e un’amicizia che non sono però riusciti a svelare il più grande segreto: il suo essere un uomo felice.Perché la chiave è il casinò?«Eugenio era un giocatore d’azzardo, al di là della retorica e degli altarini costruiti per ricordarlo. Suo padre è stato direttore del casinò di Sanremo e lui entrava anche se non aveva l’età. È lì che ha imparato a scommettere; ed è lì che ha imparato lo stile. Ma soprattutto è lì che ha appreso l’arte del contaminare generi diversi. Lo scopone scientifico e la filosofia idealista, Benedetto Croce e lo smoking bianco. La vignetta di Forattini accanto alla prosa di Calvino».Oggi avrebbe compiuto cent’anni.«Ma lui li già ha festeggiati: cento è come il milione, non è una cifra esatta, è il segno della potenza. Aveva la barba, la vecchiaia e la saggezza: festeggiava sempre il centenario».A quelle feste c’eri?«Io non ho mai lavorato con Scalfari, aRepubblica sono arrivato dopo.Quando siamo diventati amici lui era già più grande. Sì, andavo alle sue feste, spesso a casa di Roberto Benigni e Nicoletta: erano semplici, piene di persone che gli volevanobene – Renzo Piano, Pellegrino, a volte Veltroni – e si scherzava molto».Dal libro “100 volte Scalfari”, curato dal nipote Simone, che contiene pure un tuo ricordo, si dice fosse un amante dei cocktail.«Negli ultimi tempi beveva solo Coca Cola. Aveva il diabete e si faceva le iniezioni con naturalezza, senza esibizionismi ma senza nascondersi.Diceva che gli sarebbe piaciuto morire come il principe Salina delGattopardo, dopo aver ballato con Angelica Sedara, o mangiando una fetta di pandoro che gli era stato vietato. Le sigarette? Mai smesso. Il medico diceva: “Massimo due”. E lui rispondeva: “Se ne fumo cinque che cambia?”. Il medico ribatteva: “Niente”, e lui ne fumava cinque».A cosa si giocava alle sue feste?«Allo “scalfarismo”: posto che in tutti i giornalisti c’è un po’ di Scalfari, noi gli facevamo un nome e lui ci diceva quanto ce ne fosse. Sarebbedivertente raccontarli. Ma non posso parlare al posto suo».Si divertiva, Scalfari.«Guarda, il vero grande segreto di Eugenio che non siamo mai riusciti a carpire, era la sua felicità. In un Paesedi intellettuali tristi – il male di vivere di Montale, la faccia scavata di Pasolini, il tormento, l’infelicità di Pavese – lui era un ottimista allegro, spiritoso, positivo. Un giorno a casa mia si alza in piedi sul bastone e dice: “Questo è un mondo che merita di essere amato”».Il giornalismo è morto?«Scalfari diceva che il giornalismo del futuro sarebbe stato migliore».Quando tu eri ancora al “Corriere della sera”, cosa si diceva di lui?«Il mondo dei giornalisti si divideva in due: quelli che “mi vuole Scalfari” e quelli che Scalfari non aveva voluto.Mi chiamava, ogni tanto, dopo aver letto un mio pezzo e mi diceva che l’articolo lo aveva fatto arrabbiare perché non lo aveva firmato lui. In questo era simile a Montanelli, erano la mano sinistra e la mano destra del giornalismo. Erano liberali, Scalfari un liberale di sinistra; erano uguali nel rapporto con le donne: tutti sapevano tante cose, ma loro non si vantavano. Non avevano allievi e facevano i conti con i loro fantasmi.Scalfari diceva sempre che si intendeva di più con gli avversari, e, visto cheRepubblica era un giornale aggressivo, le polemiche erano roventi. Ma lui era pacificato, senza rimpianti né rimorsi, anche se qualcuno sostiene il contrario».Aneddoti?«Migliaia. Intanto ha inventato soprannomi geniali – tipo il “dottor Sottile” per Giuliano Amato; divideva il mondo con quello che definiva il metodo Lenin: uomini d’azione e bevitori di tè, gli ipocriti, i chiacchieroni, quelli che gli telefonavano il venerdì sperando di essere citati nel fondo di domenica».Tanti?«Tantissimi: esiste anche una lista che con Gnoli, nel cazzeggio al quale lo abbiamo sottoposto, abbiamo stilato. Ma siamo bravi ragazzi e resta con noi».E insomma nel suo armadio cosa c’era?«Persino una giacca con martingala.Gli piacevano le cose belle. Gli piaceva il jazz, e suonava il piano anche discretamente, gli piacevano i Beatles, con le loro canzoni aveva imparato l’inglese, ma gli piacevano anche i canti degli alpini che noi gli facevamo cantare».Sapeva di essere molto temuto?«Certo che sì, e gli faceva piacere. Ma se si apriva era anche molto fisico: abbracci, baci, i tocchi delle mani.Aveva il carattere fermo che gli italiani non hanno. Leggerezza dello stile e forza dell’impegno: questa eraRepubblica. Il giornale è stato il figlio maschio che non ha avuto».Come vuoi chiudere?«Una volta gli chiedemmo se gli sarebbe piaciuto vivere per sempre: lui, sorprendendoci, ci disse di sì, che gli sarebbe piaciuto scrivere e far scrivere per sempre suRepubblica».