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 2024  aprile 06 Sabato calendario

Sarajevo non dimentica


Sarajevo
Sarajevo è una grande casa comune, un museo a cielo aperto e un cimitero di lapidi bianche. Porta i segni dell’assedio sui volti, sui muri e sui corpi rimasti magri o mutilati. Ieri, per le ricorrenze del 5 e 6 aprile – che, per una fatale coincidenza, da un lato festeggiano la liberazione dal nazismo nel 1945 e dall’altro celebrano il tragico inizio dell’assedio (1992-95) – migliaia di persone di diversa estrazione hanno camminato insieme, in silenzio. Un immenso fiume umano, composto, partecipe e consapevole, è scivolato lungo la strada principale della città per una struggente performance topografica.
11.541 paia di scarpe, donate dai cittadini per celebrare le vittime della guerra, sono state collocate lungo un chilometro e mezzo di strada. Il corteo che le costeggiava è partito, dopo un canto sublime, da una piazza chiamata “Piazza dei bambini di Sarajevo uccisi”. Come in una fotografia la scena è vivida: scarpine, stivali, tacchi colorati, sneaker, scarpe da lavoro e file di anfibi neri militari, si snodano lungo un interminabile sentiero del male. L’iniziativa mira a mostrare simbolicamente lo spazio fisico del genocidio e l’immane quantità di morte, di vite sottratte e dolore provocato. Paradossale è la visione delle scarpe immobili senza corpi vivi e le scarpe indossate dai partecipanti in cammino lungo la linea del passato e del presente. «Fa ancora troppo male – dice Bojan Hadžihalilovi?, uno dei protagonisti della vita culturale della città – è un senso di colpa da espiare che non ci abbandona». Il tragitto solenne del corteo porta con sé tutta l’ansia di un passato che non guarisce e di un presente spaventoso. È impossibile non sentire lo strazio delle vittime e quello delle guerre che stanno fruttificando attorno a noi e che si fanno sempre più vicine, sempre più presenti, sempre più cattive. Organizzata dal Sarajevo Memorial Center, in collaborazione con il Comune di Sarajevo, l’iniziativa è nata per rendere omaggio soprattutto ai 1.601 bambini uccisi: un’eco sinistra che permane, si impone e si sposta da una regione all’altra del pianeta come un’energia nefasta.
In sette stazioni del centro della città, sono collocate piccole orchestre e cori aulici per non smettere mai di chiedersi «Com’è possibile? Come possiamo fermare questa violenza che ci soffia sul collo, che brucia nella testa, che sembra irrevocabile?».
Emblematico vivere questo momento a Sarajevo dove tutto assume un significato denso, profondo e inappellabile. Sarajevo è la città che durante l’assedio ha prodotto film festival, mostre, commedie, concerti e performance, nel buio dei rifugi e nei teatri d’occasione, dove circolava una birra che faceva schifo, la Sarajevska pivo, ma tirava su il morale. Sarajevo è la casa dal cielo stellato nella quale senti il Muezzin, Bach e Bella ciao anche mentre tirano le granate dalle colline. È il luogo dove incontri gli artisti e i grandi giornalisti che hanno resistito durante l’assedio come Zlatko Dizdarevi?, che in quel periodo ha pubblicato Lettere da Sarajevo raccontando, con un linguaggio crudo e asciutto, le piccole (immense) storie di vita. Sono le stesse storie che trovi nelle fotografie di Danilo Krstanovic alla sua mostra personale alla Galleria Nazionale della Bosnia Herzegovina. Lui, come tutti coloro che hanno trasformato la cultura il arma di resistenza non-violenta, lottava per «dire la verità di questo inferno». Ora l’inferno si sta allargando e la “macchina” è condotta come sempre, ma a livello mondiale, da cinici individui indifferenti alla macelleria bellica.
Šejla Kameri?, una tra le artiste sarajevesi più note internazionalmente, dichiara con un filo di voce: «Il nostro Paese ha strutture profondamente divisive che corrompono le persone e le loro identità. La cultura si colloca dalla parte opposta di questo spettro. Noi combattiamo, ieri come oggi, per la conoscenza, la pace e l’uguaglianza. Ma non sono parole retoriche: per noi l’eredità della guerra non è solo un trauma ma anche una forte convinzione che la pace sia una necessità».
Alla fine del percorso delle scarpe, tra le moschee, la cattedrale, la sinagoga, un gruppo di bambini intona canzoni atte a sprigionare una nuova energia che vorremmo tutti fosse rispettata, ma nell’aria aleggia un senso di pesantezza. —