La Stampa, 6 aprile 2024
Paflagone e il salsicciaio
Un articolo molto bello di Luciano Canfora sul Corriere della Sera, che prende spunto da un saggio di Ugo Fantasia e Luca Iori, attribuisce la nostra visione della democrazia ateniese a un equivoco: era un regime di minoranza, non soltanto per l’esclusione “dal diritto di cittadinanza di masse enormi”, ma anche perché le decisioni venivano poi prese da una “minoranza dei presenti e dei partecipanti”, che Tucidide quantifica in un quinto degli aventi diritto. Questo per restituire un minimo del senso della riflessione, con un finale apertissimo, in cui Canfora ricorda che già Aristofane aveva messo in guardia dal collasso cui va incontro la democrazia dell’oltranzismo. Non so se Canfora si riferisse ai Cavalieri, una commedia molto nota scritta da Aristofane due millenni e mezzo fa. Una commedia magnifica – quando si leggono i greci, la filosofia, le tragedie, le commedie, ci si chiede che restasse poi da aggiungere, in effetti non molto. I protagonisti sono due servi di Popolo (o Demo), padrone molto sensibile alle lusinghe, uno sciocco, un boccalone, circuito da un terzo servo, Paflagone, un fuoriclasse della piaggeria e del saper dire al padrone quanto il padrone si vuole sentir dire. I primi due servi pertanto detestano il terzo, e fortuitamente scoprono da un oracolo che sarà accantonato da un salsicciaio, uomo d’umile origine e disonestissimo, capace di salire a vette di fumisteria demagogica inaccessibili persino a Paflagone.
E presto il duello fra Paflagone e il salsicciaio, un’irresistibile sfida fra irresistibili cialtroni, sarà offerto agli spettatori.
Un assaggio. Vincerò le tue grida con le mie, urla Paflagone al salsicciaio. Vincerò i tuoi urli con i miei urli, grida il salsicciaio a Paflagone. E poi: lasciami parlare – no, per Zeus – sì, per Zeus – per Poseidone, mi batterò per essere il primo a parlare. Si accusano a vicenda delle peggiori nefandezze, delle peggiori ruberie, d’aver raggirato questo e quello, uno minaccia l’altro di inchiodarlo a terra, di scuoiarlo, e quando la contesa prosegue davanti a Popolo, è una contesa su chi stia prendendo per il naso Popolo, su chi amerà di più Popolo, su chi nutrirà di più Popolo, e con quali prelibatezze. Vincerà il salsicciaio, e il finale è a sorpresa, non lo svelo, ma non cambia la sostanza della commedia.
Non so – ripeto – se Canfora pensasse ai Cavalieri, a questo tipo di oltranzismo della democrazia, ma è impressionante che Aristofane avesse colto, anche nell’imperfetta democrazia ateniese del V secolo avanti Cristo, quali pericoli costituiscano per la democrazia gli eccessi della democrazia. Sono gli stessi pericoli tratteggiati da Alexis de Tocqueville di ritorno dal viaggio in America (1831-32), quando scrive che la democrazia è desiderare, ma se si desidera troppo la democrazia tracolla. La democrazia, cioè, non è più essere sudditi ma cittadini, non è più essere sottoposti al potere magari di origine divina delle monarchie ma esserne partecipi, con i conseguenti vantaggi e le conseguenti responsabilità, e non è più essere vittime del destino ma del proprio destino essere protagonisti. Con un unico limite: la collettività di cui ogni componente ha identici diritti e doveri. La democrazia sta in piedi se c’è un equilibrio fra il desiderare per sé e il comprendere il limite posto dal desiderare degli altri.
È una questione su cui ci si arrovellava parecchio. Jean-Jacques Rousseau, frainteso con tambureggiante entusiasmo dal grillismo, aveva cercato di spingere la democrazia più in là possibile con la sua volontà generale, trasformata poi da Beppe Grillo e Casaleggio padre e figlio in una piattaforma di democrazia diretta. Ma la democrazia diretta pensata da Rousseau aveva due preclusioni: il mezzo e il presupposto. Il mezzo poi è arrivato: internet. Ma il presupposto rimane un guaio, perché presupposto è che ognuno voti non pensando al proprio tornaconto ma al tornaconto di tutti. Ci vuole cioè una gran coscienza collettiva. Senza, è il cataclisma. Sia Aristofane sia Tocqueville sia Rousseau (e centinaia di altri pensatori) mettono al centro della democrazia il buon funzionamento delle classi dirigenti ma prima ancora il buon funzionamento del popolo, perché è sul popolo che la democrazia si fonda. E non ci possono essere classi dirigenti all’altezza se non è all’altezza il popolo.
Per Aristofane, il popolo ha la maiuscola: il Popolo, nome del padrone. Non deve essere sciocco, boccalone, sensibile alle lusinghe. Per Tocqueville deve desiderare ma non all’infinito, sapere quando il suo desiderio si è spinto troppo in là e porta sciagura su tutti i desideri. Per Rousseau deve far valere la sua volontà ma in nome non del bene proprio bensì del bene comune, essendo la democrazia una faccenda comunitaria. Rousseau si inoltra nei territori della chimera, e infatti nel tentativo di applicarlo di disastri se ne sono combinati per un paio di secoli. In Francia la democrazia ha avuto bisogno di un gran discorso di Benjamin Constant (1819) per rimettere l’individuo e il suo desiderio al centro del discorso, altrimenti si finisce col negare l’uomo. Ma il punto, da Aristofane in poi, è che senza la virtù del popolo, il popolo finisce nelle mani dei salsicciai.
Noi – in Italia e non soltanto – siamo nelle mani dei salsicciai al punto che è vietato parlar male del popolo. Ci fosse oggi un Aristofane, la sua commedia sarebbe roba da scantinato: vincerebbe la commedia col popolo buono e turlupinato. Se uno osa dir male del popolo, è automaticamente incasellato nella categoria degli snobisti e dei sostenitori dell’oligarchia. Eppure l’Illuminismo – da cui sono nate le democrazie moderne – insultava il popolo senza ritegno: per Voltaire era feccia, per Montesquieu era canaglia, per Burlamaqui era ignorante e brutale, per Diderot sempre ignorante e stupido, per Rousseau era plebe abbrutita che ama il pane più della libertà. Impietosi. Anche ingiusti. Speravano in un’umanità all’altezza di teorie irraggiungibili anche dai teorici. Mi piace molto di più l’osservazione del compositore Modest Musorgskij, secondo cui non può sfuggire la pigra astuzia del popolo dissimulata sotto la maschera della bonarietà, ma nemmeno il dolore che realmente lo affligge. Né ognuno di noi può mai scordare di essere parte del popolo e vittima degli stessi inganni (se uno ci elogia e un altro ci biasima, daremo sempre ragione a chi ci elogia, come il Popolo di Aristofane)
Un popolo ormai volontario ostaggio dei salsicciai, ha ragione Musorgskij, si muove secondo una pigra astuzia e un autentico dolore (oltre a essere boccalone). Ci si fida e ci si affida ai salsicciai, per stupidità e per dolore, come a Wanna Marchi e al mago Do Nascimento che procuravano l’amore eterno con zampe di rospo. Così i salsicciai da decenni ripetono la plurimillenaria commedia, si danno a vicenda dei disonesti, dei corrotti, dei mafiosi, per additare sé al popolo come gli unici onesti, si producono in strilli e urla, vogliono parlare e parlare e parlare senza l’incomodo di fare, e promettono l’intero catalogo del mercato del consenso, dalle dentiere gratis alla sconfitta irreversibile della povertà. E se lo fanno è perché il mercato è florido, perché ci si crede, perché dicono al popolo (a Popolo) quello che il popolo vuole sentirsi dire, e perché il popolo si crede furbo e di certo soffre. S’è qui parlato di Beppe Grillo e di Casaleggio sr e jr, e sono stati forse la manifestazione più innocente e quindi più ridicola, e ora con Giuseppe Conte sono saliti a una fase più professionale, diciamo così. Ma sono gran pochi quelli riluttanti al ruolo di salsicciaio, e quei gran pochi li riconoscete perché hanno gran pochi voti. Il regno della demagogia, diceva Polibio, è il regno di passaggio dalla democrazia alla tirannia. Dopo si potrà continuare a fare le vittime, il problema è che si sarà diventati vittime sul serio. —