il Giornale, 7 aprile 2024
Critici, editor e italianisti: dal dopoguerra non esiste più un canone
La direzione? Non c’è. Se Giuseppe Antonio Borgese ne aveva in mente una, oggi gli addetti ai lavori non la vedono, almeno per quanto riguarda gli anni dal Dopoguerra a oggi. Perlomeno, così risulta dalle parole degli interlocutori da noi interpellati. Un critico, un accademico, un direttore editoriale.
«Intanto, dagli anni ’60 la letteratura è diventata sempre meno importante», dice il critico Matteo Marchesini, autore dell’illuminante saggio Casa di carte. La letteratura italiana dal boom ai social (il Saggiatore): «Non è più il centro della formazione culturale. Il canone del resto non è una questione letteraria, ma appunto di formazione culturale, che oggi non è più omogenea. E il canone non si può imporre. Bisogna piuttosto avere idee su quello che sta fuori dalla letteratura». E che cosa c’è adesso alla base della formazione culturale? «C’è quello che gli studenti imparano dai libri, c’è la continua riproposta, sempre più accademica, della storia del romanzo dal ’600 a inizio ’900. Dopo, esaurito il dibattito critico, si cerca di agganciare a questo canone una serie di libri improbabili. La letteratura si studia o perché bisogna studiarla o perché ci si lavora in mezzo. Dopodiché, molti critici si occupano di altri media». Gli chiediamo se si possa capire qualcosa degli italiani da quello che è stato scritto negli ultimi cinquant’anni. «La fanno capire meglio Piergiorgio Bellocchio in Diario del Novecento e Cesare Garboli in Ricordi tristi e civili». E Arbasino? «Il suo tentativo di essere tutto risulta snobistico, ma preso a scampoli è efficace. Nel ’900 la diaristica e la saggistica hanno detto più dei romanzi. Dei contemporanei potrei citare Walter Siti, Ermanno Cavazzoni, Umberto Fiori. Ma un canone oggettivo non c’è. Almeno Pasolini e Sanguineti avevano un linguaggio comune con cui litigare. Noi no».
«Una direzione non c’è», conferma Roberto Carnero, docente di Letteratura italiana all’università di Bologna. «Gli studiosi cercano quello che chiamano valore paradigmatico, ma è difficile trovare negli ultimi decenni opere che abbiano dato origine a poetiche o correnti letterarie notevoli. Del resto il postmoderno è il momento della rottura delle poetiche forti. Dopo la guerra ci sono stati il Neorealismo, soprattutto nel cinema, il Gruppo 63 e la Neoavanguardia, un’esperienza autoreferenziale, residuale già dagli anni ’70. Negli ’80 c’è stato un ritorno a modelli più tradizionali, legati a una più facile possibilità di comunicazione. Più che di movimenti, si tratta di etichette merceologiche».
«A bruciapelo mi viene da rispondere che un canone non c’è stato», dice Michele Rossi, da poco direttore editoriale di SEM, ora nel gruppo Feltrinelli. «Posso riflettere dal punto di vista della storia editoriale italiana. Gli anni ’60 e ’70 erano quelli delle grandi case editrici (Bompiani, Einaudi, Feltrinelli), da cui in seguito sono nate case editrici come minimum fax, Camunia, La nave di Teseo, le quali hanno adottato criteri specifici. All’interno delle varie realtà editoriali ci sono stati ripetuti tentativi di coerenza nel rivolgersi a un pubblico anche vasto di lettori. Però non nascondiamoci che, come accade per esempio in Francia, il canone va anche finanziato. Giulio Einaudi diceva che il 3% dei libri pagava il restante 97. Proprio all’Einaudi negli anni ’90 è nata la collana Stile libero, con un suo canone irregolare e aperta ad altri mondi. Io sto provando a scassinare il pregiudizio verso il genere del true crime, per esempio con Antonella Mira. Per il resto, Walter Siti e Edoardo Albinati (con La scuola cattolica) hanno scritto opere impegnative, fatte per restare ed essere lette anche dopo anni. Però non siamo un Paese unito davvero. Mi chiedo: Elena Ferrante è un canone? No, ma ha un pubblico molto vasto. Non è più il tempo dei cataloghi stretti».