la Repubblica, 4 aprile 2024
Il girotondo di Salvini
Giunto sull’orlo del burrone – politico, s’intende – Matteo Salvini si è fermato e ha cambiato posizione come si cambia una camicia sporca. Nell’ampia intervista rilasciata al direttore di Libero, il vice premier ha criticato Putin per l’invasione dell’Ucraina; ha di nuovo dichiarato esaurito il rapporto con Russia Unita, il partito dell’autocrate; e soprattutto ha evitato di ribadire le frasi entusiaste, anche molto recenti, che avevano fatto di lui il politico dell’Europa occidentale più vicino al Cremlino. Si dirà che questo non è del tutto vero, perché in Francia c’è Marine Le Pen, fino a ieri altrettanto filo-russa ed elettoralmente molto più pesante di una Lega dimagrita fino al 8 per cento. E in effetti è alla Francia lepenista che bisogna guardare. Marine è sempre stata il faro politico di Matteo, la fonte ispiratrice. Non per ragioni ideali, ma per la propensione pratica a seguirne le orme e quindi la via al successo.
Le cose non sono andate così, almeno dalle nostre parti. La destra di successo, piaccia o non piaccia, è quella rappresentata da Giorgia Meloni. Al capo della Lega che fu di Umberto Bossi è rimasta la parte dell’estremista massimalista. L’uomo che si è accompagnato ai tedeschi di Alternative, senza rendersi conto del buco nero in cui andava a cacciarsi. All’improvviso tutto finito? È nato un nuovo Salvini? Addirittura un “liberale antifascista” (e anticomunista, precisa nell’intervista), una sorta di Mario Pannunzio o Nicola Chiaromonte. Vuol dire che la caduta elettorale prevista da tutti i sondaggi ha compiuto un miracolo laico. Addirittura il ministro delle Infrastrutture organizza un G7 dedicato alla ricostruzione dell’Ucraina, con invito esteso al rappresentante di quel paese. Le notizie dal fronte contribuiscono senza dubbio al ripensamento. Un conto è fare l’amico di Putin quando l’Occidente è compatto nel sostenere Zelensky, un’altro è apparire il collaborazionista numero uno dell’oppressore russo quando la ruota sembra girare a favore di Mosca.
Ma anche in questo caso Salvini è arrivato in ritardo. Sul terreno dell’opportunismo, Marine Le Pen lo ha battuto, quando invece il capo del Carroccio aveva tutto l’interesse ad arrivare primo. E si capisce. Come vice premier di un governo la cui presidente Meloni ha intrattenuto ottimi rapporti con Ursula von der Leyen, sempre atlantista nel dramma ucraino, la battaglia leghista contro la rielezione era ben poco credibile se appariva decisa su impulso diretto o indiretto di Putin. Diverso il caso della nazionalista francese che comunque era sempre rimasta all’opposizione. Ora resta da capire se la subitanea conversione porterà fortuna elettorale al cosiddetto “capitano”. C’è un detto inglese che dice: “troppo tardi e troppo poco”. Il rischio c’è, a meno di avere ben chiaro il punto d’approdo. Nell’intervista il nuovo Salvini manda parecchi segnali. Uno è a Umberto Bossi, il vecchio leader a cui sono rivolte parole al miele. Indizio che i sogni di una Lega tutta “salviniana” sono davvero franati e che il rischio di una rivolta nordista interna è reale. Per cui il sostegno, o almeno la neutralità, di Bossi diventa essenziale.
Il secondo segnale, il più importante, è a Giorgia Meloni. A leggere l’intervista si coglie un’offerta di collaborazione o se non altro la fine delle rivalità dentro la coalizione. Sappiamo che Salvini non è proprio un monumento alla coerenza, come ha appena dimostrato. Tuttavia, se mai fosse confermata, la fine della frattura sulla politica estera sarebbe una novità importante a destra. Renderebbe forse più solida la leadership meloniana e lascerebbe al binomio Pd-5S il compito di sciogliere le proprie contraddizioni sul piano internazionale.