Corriere della Sera, 4 aprile 2024
Atene, ma quale democrazia?
Il culto moderno per la democrazia ateniese è frutto di un equivoco. Rimane in ombra, negli scritti dei suoi apologeti, il dato macroscopico: quello fu un regime di minoranza. Regime che può definirsi tale non solo per la ben nota ragione dell’esclusione dal diritto di cittadinanza di masse umane enormi (schiavi, donne, meteci), ma anche – e non meno – per il meno noto meccanismo tipicamente assembleare onde la minoranza dei presenti e partecipanti all’assemblea decide per tutti. Un cenno in tal senso si trova in Tucidide, là dove i sostenitori di una riduzione della cittadinanza a soli 5.000 «benestanti» fanno notare che, in regime democratico, ad Atene, al più tanti ne vanno all’assemblea, cioè meno di un quinto degli aventi diritto.
Non è poi soltanto una questione di numeri ma anche, e soprattutto, di gruppi sociali. I contadini, in gran parte piccoli proprietari, vivono nei loro «demi» (li possiamo chiamare, con Johann Gustav Droysen, «municipi»), non vanno all’assemblea ma ne subiscono le decisioni. E quando tali decisioni comportano sacrifici gravi e prolungati – per esempio l’interminabile guerra con Sparta – il loro disagio è profondo. Aristofane ne è, per noi, il maggior interprete. Aristofane è il difensore del mondo contadino e l’assertore del nesso tra pace e agricoltura. «Agricoltura» è un personaggio da lui creato nel rifacimento della sua commedia Pace. La prima redazione era stata coronata da successo pochi giorni prima dell’entrata in vigore della pace di Nicia (aprile 421 a. C.).
L’equivoco dei moderni, studiosi e non, che si esaltano per il sistema politico ateniese, è stato un fattore storiograficamente e culturalmente negativo. Alla base vi era un cortocircuito, molto caro alla storiografia «progressista» ottocentesca, incline alla ricerca di antecedenti gratificanti. Quel cortocircuito ha portato la ricerca storica sull’Atene del V-IV secolo a. C. a fraintendimenti ed ha sorvolato sul fenomeno, ingombrante e significativo, dell’eclissi per millenni di quella forma politica. Le voci critiche provenienti da quel mondo, Aristofane per esempio, venivano depotenziate con l’argomento grossolano secondo cui la commedia, proprio perché tale, non va presa sul serio. E invece andava presa sul serio la biografica antica notizia, forse ben fondata, secondo cui Platone, richiesto da Dionigi di Siracusa di chiarire la sostanza del sistema politico ateniese, consegnò a Dionigi appunto le commedie di Aristofane. Meno noto forse è che, nel 1793, a Gottinga, il grande Christian Gottlob Heyne (1729-1812) diffuse una Delineatio ex Aristophane dei due concetti confliggenti «libertas et aequalitas» (libertà e uguaglianza) in Atene. Né viene richiamato, nonostante la notorietà dell’autore e dell’opera, il breve e illuminante capitolo della Démocratie en Amérique di Tocqueville (vol. II, 1840) in cui la cosiddetta democrazia ateniese viene definita «un’aristocrazia piuttosto allargata»: anticipazione della definitiva diagnosi di Max Weber: «Una Gilda che si spartisce il bottino».
Non pochi studiosi, anche eccelsi, prediligono prendere sul serio l’epitafio di Pericle rielaborato da Tucidide e trascurano di notare che, poche pagine dopo, lo stesso Tucidide definisce «democrazia solo a parole» il regime vigente nell’Atene di Pericle. Il carattere non vero di quel troppo celebrato epitafio traspare un po’ dovunque; e culmina nella situazione quasi comica onde Pericle esalta Atene come luogo in cui «si pratica la filosofia senza che ciò ci infiacchisca» pur consapevole della sorte del suo amico e filosofo Anassagora (il maggior pensatore del V secolo a. C.), costretto a fuggire da Atene per evitare una pericolosissima condanna «per ateismo».
Fuori dal coro
Le voci critiche come quella di Aristofane venivano depotenziate: da qui i fraintendimenti
Ma per fortuna non tutta la dottrina moderna sull’Atene classica è incrinata dalle leggerezze modernistiche alla George Grote (molto più concreto di lui era stato il liberale Benjamin Constant, che nel celebre discorso comparativo del 1819 avvertiva: Atene è pur sempre la democrazia che manda a morte i generali vincitori alle Arginuse e, poco dopo, Socrate, il quale li aveva difesi dinanzi ad un’assemblea urlante «Qui si vuole impedire al demo di fare quello che vuole!»).
Hobbes, il grande pensatore inglese cui dobbiamo i fondamenti della scienza politica, quando nel 1629 tradusse tutto Tucidide vi premise una sua elegia in latino che suonava all’incirca così: «Lui ci ha messo in guardia da che cosa sia davvero la democrazia». Bene dunque hanno fatto Ugo Fantasia e Luca Iori a dar vita ad un lavoro a più voci edito da poco nei Quaderni della Rivista Storica Italiana, La democrazia ateniese in età moderna e contemporanea (Edizioni Scientifiche Italiane), e nel porre già subito Hobbes nel giusto rilievo che merita nella storia di tale ricezione. L’autore del saggio, Kinch Hoekstra, prende le mosse, molto opportunamente, da una considerazione: «La sua (di Hobbes) concezione della democrazia era essenzialmente ateniese» (p. 47). E non poteva, forse, essere altrimenti se si considera che la democrazia come aspirazione e movimento politico delle masse è un frutto di molto posteriore: è il risultato della nascita, nell’età della Restaurazione, di organizzazioni sociali (politiche e di categorie, dal socialismo francese ai cartisti inglesi) miranti alla conquista del suffragio (contro il suffragio ristretto della visione liberale) e al miglioramento delle condizioni di lavoro (orario, lavoro minorile, igiene, miseria abitativa, scarsa o nulla scolarizzazione etc.). I saggi compresi nel volume sono tutti pregevoli già solo per la originale tematizzazione: qui però si vuol segnalare almeno quello, rilevante, di Ugo Fantasia sul Mito di Aristide riformatore democratico, frutto di una profonda e critica conoscenza delle fonti.
Quello che, al termine, mette conto rilevare è che l’abisso che separa la cosiddetta democrazia ateniese dall’esperienza democratica dei moderni risulta in modo illuminante dall’uso del «modello ateniese» da parte dei leader e degli intellettuali sudisti statunitensi, durante la guerra di secessione, a difesa dell’istituto della schiavitù: il modello ateniese a Charleston, come è stato chiamato (ma la schiavitù come «macchia» dell’antica democrazia era stata avvertita e rilevata già dalla cultura termidoriana alla fine del Settecento: Volney, Fortia d’Urban).
Ma torniamo per un momento ad Aristofane, potente protagonista critico. A lui dobbiamo la lucida e allarmante denuncia del bellicismo dell’(antica) democrazia, nonché la consapevolezza di come l’oltranzismo «democratico» portò la città alla rovina e – come scrisse Toynbee – la Grecia al suicidio.