il Fatto Quotidiano, 4 aprile 2024
Memorie di una (ex) geisha. Muse giapponesi dell’arte italiana
Donne fuori dall’ombra e dal comune. Finalmente illuminate per il rilievo di quanto realizzato con viaggi, pubbliche relazioni e reportage tra l’Italia e il Giappone. E questo fin dalla seconda metà dell’Ottocento quando per viaggiare dal nostro Paese a quello dove sorge prima il sole si impiegavano mesi di permanenza su una nave.
Il saggio curato da Teresa Ciapparoni la Rocca – Fuori dal cono d’ombra, appunto, fresco di stampa con Lindau – vanta contributi autoriali per ciascuna personalità considerata e si distingue dal genere biografico “perché è ristretto a due Paesi, e allarga ad attività svolte da figure femminili poco conosciute”. Ci si sorprende nell’incontrare insospettabili ritratti di vita, e di come si sia sviluppata una reciproca influenza culturale.
Quella sera di aprile del 1902 a Milano, ad esempio, Giacomo Puccini non immaginava cosa gli sarebbe successo andando a vedere uno spettacolo di cui aveva sentito parlare da artisti, tra cui Rodin e Debussy, messo in scena dalla troupe di Kawakami Otojiro di tappa in Itali, dopo Londra e Parigi. La visione lo sorprese più di quanto previsto, soprattutto la performance di Sadayakko – la geisha più famosa di Tokyo diventata attrice di fama internazionale – cosicché tornerà per rivederla in numerose successive serate. E cercherà anche d’incontrarla, ma Sada Koyama in Kawakami, conosciuta con il nome d’arte di Sadayakko – in Italia soprannominata “la Duse del Giappone” – non lo ricevette mai perché troppo impegnata per prestargli attenzione. L’affascinante giapponese venne lodata, seppure con immancabile esotismo, dalla giornalista Matilde Serao, più svelta dei colleghi uomini nel pubblicare un articolo sul Mattino di Napoli il giorno dopo il debutto al teatro Valle di Roma: “Oh, che essere di vita profonda, e ardente o suggestiva, che creatura di visione e di realtà, che donna multanimo e inarrivabile in sua svariata espressione di anima! Sada Yacco!”. Di Sadayakko, che offrì al pubblico italiano il primo esempio di teatralità nipponica, con costumi, movenze, ritmi, e suoni della musica del suo Paese scrive anche nel 1907 Marianna Clelia Abate Arcostanzo, famosa “Donna Maria” della rivista La Donna, a proposito del femminismo in Giappone.
Stimoli potenti per il compositore italiano, intento a lavorare su Madama Butterfly e in assoluto bisogno di consigli sulla musica giapponese. A questo rimediò la signora Oyama Hisako, moglie del ministro Plenipotenziario inviato del Giappone in Italia, dotata di notevole vivacità intellettuale e personalità molto socievole. Hisako parlava fluentemente francese e, all’arrivo in Italia, si applicò per impararne la lingua, organizzando tra l’altro cene e balli durante i quali incontrò più volte Puccini. A lui fece ascoltare canti della tradizione, gli spiegò il contesto e ne tradusse i testi, pure procurandogli diversi dischi e spartiti. Guidandolo così nelle scelte da compiere per Butterfly. Nel saggio si scoprono concatenazioni spontanee tra le protagoniste: Sadayakko a Roma andò a cena dalla signora Oyama, e la soprano Miura Taamaki, Butterfly preferita dal compositore toscano, imparò l’italiano e la parte prendendo lezioni a Londra dalla figlia di Oyama, Sawada Miyoko.
Ma le signore italiane? Anche qui lo stupore non manca. Tra le molte, Angelina Fatta baronessa di Villaurea parte per il Giappone da Palermo nel 1908 con una Kodak a tracolla, pronta a documentare ciò che avrebbe incontrato, forse incuriosita dall’aver conosciuto nella capitale siciliana O’Tama Kiyohara in Ragusa, pittrice giapponese che dal 1882 visse per 50 anni a Palermo, dipingendo centinaia di quadri, dispersi tra collezioni private e musei, e decorando le case dell’alta società. Nel 1928-29, fu la giornalista Maria Albertina Loschi ad arrivare in Giappone e, sebbene fascista, scrisse numerosi articoli sulle associazioni femministe e culturali, uscendo dai canoni tradizionali delle “sorelle d’Oriente”.
Quale sia il filo che unì Palermo al Giappone non si sa, eppure un’altra palermitana di nascita, Topazia Alliata ha avuto un rapporto strettissimo con le isole a forma di libellula, nel bene dell’arte di cui è stata portatrice, così come nel male dell’esperienza vissuta con il marito Fosco Maraini, le figlie Dacia, Yuki e Toni, durante i due anni in campo di prigionia vicino a Nagoya. Eppure, rientrata in Italia e per tutta la vita, Topazia ha continuamente proposto artisti nipponici in gallerie italiane e viceversa. In chiusa di prefazione la curatrice Ciapparoni la Rocca azzarda un delizioso quesito: “Non sarà stata una donna ad aver diffuso qui i sushi e lì il tiramisù? Creando esperienze ed entusiasmi come nessuna missione ufficiale sarebbe stata capace di fare?”. Non stentiamo a crederlo.