La Stampa, 4 aprile 2024
A casa di Martin Scorsese
Il leggendario critico cinematografico statunitense Roger Ebert una volta ha detto, parlando di chi ha scelto i film come professione: «Non siamo mai cresciuti. La nostra è una forma di ossessione patologica adolescenziale, che non ci ha mai abbandonato e non ci abbandonerà mai». Una di quelle ossessioni che, trasposte sullo sfondo di un panorama più vagamente adulto, potrebbero somigliare alla passione religiosa. «È come entrare al tempio, o in una chiesa», racconta Fran Lebowitz parlando delle serate a casa del suo amico fraterno Martin – o, meglio, “Marty” – Scorsese a guardare e riguardare vecchi film. «Prima che la pellicola inizi, lì, nella saletta di proiezione, tutti stanno già discutendone. Come se lo avessero appena visto. Sono film che la maggior parte dei convenuti conosce a memoria». I convenuti, solitamente, sono un gruppo di accaniti cinefili di vecchia o vecchissima data. Adolescenti invecchiati che non hanno mai perso il gusto per la scoperta e la riscoperta e che vivono per raccontarsi e riraccontarsi le scene e i retroscena. «Arriva Marty e a quel punto il film dovrebbe incominciare. E invece no. Si mette a discutere anche lui: si infila nelle conversazioni come se sapesse sempre esattamente cosa è appena stato detto, come se avesse sempre una risposta memorizzata».
Religione, appunto. Non a caso nel cinema si parla spesso di “culto” e la scena descritta da Lebowitz ricorda molto da vicino la fibrillazione composta che precede l’inizio di una cerimonia. Dopo, è tutto un rito, il cadenzato svolgersi di una liturgia che si ripete sempre uguale per la delizia e l’elevazione spirituale dei presenti. «Durante il film non si parla. Ho provato a bisbigliare un paio di volte, il gelo che ho ricevuto in risposta è stato peggio che se mi avessero cacciato fuori». C’è chi può permettersi di fare eccezione, naturalmente: «Marty ogni tanto indica qualcosa sullo schermo, o spiega una scena». È il maestro di cerimonie, il sacerdote secolare che conosce il libro sacro meglio di tutti e che può dare una spiegazione coerente, una lettura, un elemento fondamentale sul quale meditare. Capo chino e mani giunte.
Scorsese è indubbiamente un uomo di fede: cresciuto cattolico, abituato a servire messa, immerso nell’ambiente ultrareligioso della New York delle seconde generazioni, che poi ha esplorato, tradotto, raccontato attraverso il suo lavoro. Ma – e l’occasione per porsi l’interrogativo viene dal recente Dialoghi sulla fede dello stesso Scorsese assieme ad Antonio Spadaro, pubblicato da La nave di Teseo, che ha tutta l’aria di un ampliamento di un discorso a più tornate approfondito cominciato diversi anni fa, quando il regista e il sacerdote si sono incontrati in occasione dell’uscita del film Silence, nel 2016 – viene da chiedersi se sia in effetti in Dio, che la ripone, e non nel mezzo che scatena in lui le pulsioni più innate: il cinema. «Siamo come bambini, di fronte a Dio», è un vecchio adagio che ritorna nella tradizione cattolica e che qui può assumere un profilo più diretto e puro. Siamo adolescenti, di fronte al cinema – per parafrasare Ebert.
«Si possono fare domande, è concesso», continua Lebowitz nel suo racconto. I film che guardano sono solitamente capolavori neorealisti, monoliti dell’epoca d’oro della nuova guardia giapponese, o imprescindibili pietre angolari appartenenti al pre-sonoro. «Ma non bisogna dare l’idea di non averci capito niente. Per due motivi: il primo è che tutti la prenderebbero come un’offesa personale; il secondo è che passerebbero il resto della serata a rispiegare tutto il film da capo». Se la fede implica l’esistenza di un mistero, di un atto di cieca aderenza, il cinema è invece l’esaltazione della spiegazione. Percorrendo l’esistenza di Scorsese, dietro le quinte dell’immaginazione del grande cineasta, è rivelato quanto tutta la sua produzione artistica si fondi su basi tanto solide da avere più attinenza con il processo scientifico che con quello religioso. È vero: ha sempre inseguito Dio, ma come si cerca di comprendere la fisica che tiene in equilibrio il mondo, piuttosto che abbracciandone l’evanescenza. E se c’è qualcosa in cui ha sempre creduto ciecamente, è la magia che porta le immagini sullo schermo e che fa credere agli spettatori l’impossibile. Che trasforma la sua vita, la vita di un ragazzino nato a Queens da genitori italiani e cresciuto immerso in quel miscuglio di violenza, brutalità e meraviglia che erano le strade di Flushing, in materiale narrativo, in catarsi – non mistica ma tangibile e concreta. In grado di dubitare e far dubitare della realtà del mondo, e far credere nell’esistenza di un Dio onnisciente. Il regista.
«Non c’è niente di più prezioso delle serate a casa di Marty», sostiene Lebowitz con un sorriso furbo e beato. «È un rituale per iniziati. La migliore festa dell’ultimo dell’anno. L’unica occasione sociale alla quale non rinuncerei mai». È un atto di fede, lo stesso che Scorsese condivide con chi è disposto a credere in lui. —