La Stampa, 4 aprile 2024
Intervista a Franco Locatelli
Il professor Franco Locatelli, oncoematologo di fama mondiale e presidente del Consiglio superiore di sanità di solito è uno che non si schiera. Ma questa volta non ci ha pensato due volte a firmare insieme ad altri 13 scienziati l’appello a salvaguardia del nostro Ssn. «Per non dover nemmeno ipotizzare che i pazienti non abbiano più l’accesso gratuito alle terapie innovative più costose».
Professore, cosa l’ha spinta a scendere in campo a difesa del nostro Ssn?
«Lo stesso intento degli altri firmatari dell’appello: richiamare l’attenzione di tutti, non solo della politica, sulla necessità di salvaguardare l’Ssn, che è patrimonio del nostro Paese. Tra quattro anni compirà mezzo secolo e abbiamo il dovere morale di preservarlo integro ed efficiente per le generazioni future. La nostra stupenda Costituzione con l’articolo 32 non solo tutela la salute come diritto fondamentale, ma stabilisce la gratuità delle cure agli indigenti. Su questo iniziamo ad udire qualche scricchiolio insidioso. Vorrei anche aggiungere che poiché la sanità pubblica è finanziata dalla fiscalità generale, ogni tassa elusa va ad indebolire l’Ssn e a privare di cure gratuite gli indigenti».
Sta dicendo che i condoni varati a raffica dal governo finiscono per indebolire anche l’Ssn?
«Dico che più risorse possiede lo Stato, maggiore può essere l’investimento in sanità».
Lei però lavora nel privato…
«Si ma quello del Bambin Gesù è un privato no profit che offre cure gratuite a tutti. Addirittura, attraverso aiuti umanitari garantiamo trattamenti sofisticati anche a bambini che arrivano da Paesi meno fortunati del nostro. In 14 anni al Bambin Gesù non mi è stato mai negato una sola volta il permesso di somministrare terapie anche molto costose ai miei piccoli pazienti».
Da quanto lavora nel servizio pubblico?
«Da quando nel 1988 ho iniziato con le guardie mediche, prima di passare ad occuparmi di oncoematologia al Policlinico San Matteo di Pavia».
In tutti questi anni come ha visto cambiare la sanità?
«Non c’è dubbio che l’avanzamento tecnologico ha consentito di migliorare la cura. Ma è anche vero che con la maggior durata dell’aspettativa di vita sono sorti problemi sui quali va posta attenzione. Mi riferisco soprattutto alla continuità di assistenza tra ospedale, territorio e domicilio dei pazienti, sempre più anziani e alle prese con più cronicità. Per questo credo occorra rivalorizzare la figura del medico di famiglia, magari dando dignità accademica alla loro formazione oggi affidata a corsi regionali».
Da una vita si dedica alla cura dei bambini. Cosa la angoscia pensando come potranno essere assistiti in futuro?
«Non sono angosciato per loro, che saranno sempre e comunque oggetto di prioritaria tutela, ma per il dover anche solo ipotizzare che i malati del nostro Paese non abbiano più l’accesso gratuito alle cure, soprattutto a quelle innovative più costose. Già oggi vediamo quel che succede con gli ultrasessantacinquenni, che in un caso su quattro rinunciano alle cure che il servizio pubblico non è riuscito a garantire in tempi accettabili».
Nell’appello denunciate anche le crescenti diseguaglianze territoriali…
«Nonostante il sottofinanziamento continuiamo ad avere performance invidiabili, con una mortalità prevenibile o trattabile su valori nettamente inferiori a quella di Paesi vicino il nostro. Questo con un finanziamento di spesa pubblica pari a 132 miliardi contro i 271 della Francia e i 423 della Germania. Ma questo detto, non possiamo dimenticare che è anche vero che a Trento si ha un’aspettativa di vita di 3 anni maggiore rispetto a chi nasce in Campania e lo stesso dicasi per la mortalità perinatale al Sud rispetto al Nord del Paese. Sono cose che artigliano la mia coscienza di uomo prima ancora che di medico».
Ha dei nipotini?
«Una nipotina di sette anni».
In che Paese immagina potrà crescere?
«Il Paese che sogno per lei è quello nel quale tutti abbiano pari opportunità di studio, di crescita e di ambire alla professione prescelta. Senza doversi preoccupare della tutela del bene più prezioso: la salute».
I giovani preferiscono i guadagni della chirurgia estetica alla fatica del Pronto soccorso. Cosa occorre per risvegliare la passione?
«Con un po’ di autocritica dico che noi professori universitari dovremmo trasferire non solo conoscenze, ma anche valori. Però è indubbio che per quelle scuole di specializzazione in crisi di vocazione occorrerà pensare anche a incentivi economici, altrimenti tra qualche anno rischiamo di non avere più anatomopatologi che interpretano gli esami istologici. E sarà necessario anche colmare le gravi carenze di infermieri, incentivandoli non solo con stipendi adeguati, ma prevedendo percorsi di carriera che siano motivanti».
Lei è un pioniere delle Car T, che insieme ad altre terapie stanno sempre più personalizzando le cure. Ma con l’efficacia aumentano anche i costi. Come li sosteniamo?
«Prima di tutto investendo in terapie che producano davvero significativi benefici per i pazienti. Poi auspico modelli di rimborso basati, oltre che su un ragionevole margine di profitto, sui reali costi di sviluppo, validazione e produzione, che ad esempio per le Car T realizzate in ambito universitario sono molto più bassi di quelli industriali. Altrimenti le cure innovative più efficaci se le potrà permettere solo chi ha un’assicurazione. Come succede negli Usa, dove prima di curarti ti chiedono la carta di credito. Un modello egoistico che nessuno dei firmatari vuole. Ma verso il quale qualche segnale ci dice che rischiamo di andare». —