la Repubblica, 4 aprile 2024
Sognava di pilotare un caccia ma poi è diventato famoso alla guida di un trattore. Andrea Pennacchi arriva nel tardo pomeriggio, nel momento in cui a Padova gli uffici si svuotano e i bar degli spritz iniziano a riempirsi
Sognava di pilotare un caccia ma poi è diventato famoso alla guida di un trattore. Andrea Pennacchi arriva nel tardo pomeriggio, nel momento in cui a Padova gli uffici si svuotano e i bar degli spritz iniziano a riempirsi. L’appuntamento è in un’enoteca con le botti a fare da tavoli e le bottiglie di vino impilate una sopra l’altra sulle pareti. “In realtà a me sarebbe piaciuto pilotare il Fiat G91, un ricognitore: poteva fare grandi cose anche senza uccidere”. E giù la prima sorsata del suo aperitivo preferito: Prosecco, Campari e una spruzzata di Gin. Quindi il Pojana, prima del Pojana, era un aspirante Top Gun. “L’istituto aeronautico a Forlì, poi ufficiale di complemento in Aeronautica. Mi piaceva l’idea di viaggiare, di vedere cose nuove ma alla fine è prevalsa la voglia di raccontare storie. Io sono innamorato delle storie, a volte resto incantato anche al bar, quando ne sento qualcuna. Questo si fa a teatro, si raccontano storie”, dice mandando giù un’altra sorsata. Dal palco di Propaganda Live alla piazza della sua città, dal set di Petra con Paola Cortellesi alla vita vera. Tra ricordi, delusioni e qualche idea per il futuro.
Andrea Pennacchi, se qualcuno le chiede che lavoro fa cosa risponde?
“Fino a qualche anno fa avrei detto operatore teatrale, suonava più professionale. Ora dovrei dire storyteller ma non mi piace, ha una connotazione commerciale. Quindi facciamo pure attore”.
Qual è il suo primo ricordo?
“La prima volta in cui sono entrato in un teatro, a Padova, nella chiesa sconsacrata Delle Grazie. C’era il direttore Lorenzo Rizzato che governava tutto come fosse il comandante di un galeone spagnolo. C’erano le luci, gli odori. Impossibile dimenticare”.
Però ci è arrivato tardi al teatro.
“Sì, perché avevo scelto un’altra strada: volevo fare il pilota aeronautico. A un certo punto mi sono reso conto che non era la mia strada, così mi sono iscritto all’università: Lingue, a Padova. Il primo corso di teatro è arrivato in quegli anni, era l’89. Come disciplina mi ricordava molto il militare, per la serietà d’impostazione”.
Come ha deciso che quello sarebbe dovuto essere il suo lavoro?
“Era tardi per una carriera, avevo già 25 anni ma alla fine mi sono intestardito. La svolta, per me, è stato vedere lo spettacolo Vajont di Marco Paolini. Rimasi sconvolto, capii che volevo fare quella cosa lì”.
I suoi genitori come la presero?
“Mia mamma si dimostrava contenta, mio papà invece era decisamente deluso. Come pilota avrei avuto buone possibilità, avevo già il brevetto civile. Mi salvai solo perché nella mia famiglia nessuno era laureato, quindi il titolo di dottore temperò un po’ quella delusione. Li spaventava molto questa cosa del teatro, faticavano a vederlo come un mestiere. Se ti fissi con il teatro poi dimentichi il lavoro vero, dicevano”.
Chi erano i suoi genitori?
“Erano primipari attempati (ride). Mio padre, del ’27, fu un partigiano: finì in un campo di concentramento a 17 anni, nel 1944. Mia mamma era troppo piccola, aveva 15 anni, quindi i tedeschi decisero di uccidere nonno Settimo”.
Nonostante questo background, inizialmente, scelse la strada militare. Come mai?
“Normalissima voglia di andare a esplorare cose nuove. I miei amici si iscrivevano al liceo, io volevo fare qualcosa di nuovo, per provare a sentirmi all’altezza”.
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Il personaggio che la rende famoso è il Pojana, come nasce l’idea?
“Avevo fatto un adattamento a teatro delle Allegre comari di Windsor, e c’era questo personaggio, Franco Ford. Traducendolo l’avevo trovato molto veneto: la sera faceva ronde contro gli immigrati, sembrava proprio nato da queste parti. Mi ispirò e feci il pezzo Ciao terroni, su testo di Marco Giacosa. Il video diventò virale e dopo qualche tempo fui contattato da Propaganda Live: vieni a farlo da noi, in diretta. Poco prima di salire sul palco però mi resi conto che non potevo dire di essere Franco Ford. Serviva un soprannome da bar. Allora ho pensato al predatore più feroce e opportunista della pianura padana: la poiana”.
Ed è stato un successo, anche se non subito capito a pieno. Cosa vuole comunicare con il Pojana?
“Il Pojana non è razzista e non prende in giro nessuno: è acuto e vede cose che altri non vedono. È avido ma saggio. Attraverso la sua maschera faccio notare assurdità o cose che mi fanno soffrire. Diciamo che grazie a lui l’attualità dura diventa più digeribile. Solo qualche persona terminalmente stupida può pensare che il Pojana insulti i veneti”.
Ecco, i veneti, è questa la sua nota identitaria?
“Siamo sempre stati quelli che fanno e tacciono. Non siamo mai stati tanto bravi a raccontarci. Però se ci guardiamo intorno troviamo Natalino Balasso e Marco Paolini. Io rubo un po’ a loro e un po’ a Goldoni e Ruzante. Uso la televisione per cercare di far capire il punto di vista del Nordest”.
Prima i monologhi, poi le rappresentazioni teatrali e anche un libro. Qual è il futuro del Pojana?
“Al momento si diverte e non perde tempo in capannone. Insieme a Marco Segato, altra eccellenza locale, ho scritto una sceneggiatura: se troviamo i soldi lo portiamo al cinema”.
Ma chi è Andrea Pennacchi giù dal palco?
“È un uomo che si avvia per i 55, li farò l’11 ottobre. Ho una moglie, si chiama Maria Virgillito, fa la psicoterapeuta, è romano-sicula. È venuta a Padova per studiare, ci siamo incontrati all’università. Insieme stiamo portando avanti un progetto nelle scuole, aiutiamo con il teatro i ragazzi con problemi psicologici. Poi ho una figlia di 11 anni”.
Nel suo percorso c’è una delusione che ricorda particolarmente?
“Diciamo che ce ne sono state tante, ma quasi tutte micro. Recentemente mi è dispiaciuto essere attaccato per il film La rosa dell’Istria. Da sinistra mi hanno accusato di essere al soldo dei fascisti, da destra hanno contestato il fatto che non si parlasse di Foibe. Io penso di aver fatto il mio lavoro di attore, ho raccontato la storia di una famiglia, senza cadere nella visione manichea di buoni da una parte e cattivi dall’altra. In generale mi dispiace sempre quando mi scontro con la stupidità, quando trovo qualcuno che non ha visto il film, non conosce la mia storia personale ma comunque mi attacca. E poi dai, io al soldo dei fascisti? Chi lo dice davvero non sta usando la materia grigia”.