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 2024  aprile 04 Giovedì calendario

Così la Nato rimise il mondo in equilibrio


Il 4 aprile del 1949 a Washington si firmava il Trattato per la costituzione del Patto Atlantico. Settantacinque anni dopo la guerra lambisce l’Europa
Una pioggia leggera bagnava i dieci gradini della scalinata di marmo che porta al Departmental Auditorium, l’imponente edificio neoclassico dominato dalle sei gigantesche colonne doriche di Constitution Avenue. Il conteCarlo Sforza li salì di buon passo, nonostante avesse quasi ottant’anni. La primavera tardava ad arrivare a Washington in quel lunedì 4 aprile 1949: il termometro segnava undici gradi. Ma Sforza, che solo un anno prima aveva mancato per pochi voti l’elezione a presidente della Repubblica italiana, non vi fece troppo caso. Quei dieci scalini lo separavano da uno straordinario successo politico che fino a poco prima appariva irrealizzabile: stava per firmare a nome dell’Italia il Trattato per la costituzione del Patto Atlantico. Un gesto che avrebbe cambiato la storia del mondo, e del Paese che egli rappresentava come ministro degli Esteri.
Oggi, settantacinque anni dopo, nel pieno di una guerra alle porte d’Europa, l’esistenza della Nato appare un dato tanto rassicurante quanto scontato. Non lo fu allora, come non lo è adesso. Lo stesso concetto di Occidente quale comunità di valori democratici, che oggi ci sembra evidente, era in fase di lenta e faticosa costruzione.
Il mondo del 1948-49 vedeva già la contrapposizione sempre crescente tra gli Stati Uniti e l’Unione sovietica con in palio l’Europa. Ma le categorie mentali erano in parte ancora quelle uscite dalla guerra che vedevano le “potenze vincitrici” da una parte, e gli sconfitti dall’altra. A Washington il presidente Truman era stato a lungo condizionato e frenato nei suoi progetti dal neo-isolazionismo, riemerso alla fine del conflitto come uno stato d’animo largamente sentito nel Paese. Per superarlo, era stata necessaria una risoluzione parlamentare presentata dal senatore Vandenberg nell’estate del ’48 che prevedeva la possibilità per gli Stati Uniti di stringere alleanze militari in tempo di pace: un passo che avrebbe limitato il diritto esclusivo del Senato a impegnare il Paese in un conflitto. Anche così, Truman preferì aspettare di essere rieletto alle presidenziali di autunno prima di rendere pubbliche le sue idee su una alleanza con gli europei.
In attesa che gli Usa superassero le proprie resistenze interne, Gran Bretagna e Francia avevano stretto un patto di mutua assistenza militare nel 1947, allargato un anno dopo a Belgio, Olanda e Lussemburgo con il Trattato di Bruxelles. L’improbabile onere di fronteggiare lo strapotere dell’Armata Rossa e dei suoi quattro milioni di soldati in armi restava comunque circoscritto alle “potenze vincitrici”, ma era evidente a tutti che Francia e Regno Unito non sarebbero state mai all’altezza di un tale compito senza il supporto degli Stati Uniti e del loro arsenale nucleare.
I colloqui riservati tra americani, canadesi e britannici si dipanarono per tutto il 1948, resi ancora più urgenti dal colpo di Stato comunista con cui l’Urss aveva rovesciato il legittimo governo cecoslovacco e dal blocco di Berlino voluto da Stalin. Ma anche in quel contesto le visioni non erano affatto convergenti. Londra inizialmente avrebbe preferito una alleanza tra le tre potenze anglofone. Poi aveva ripiegato sull’idea una coalizione “atlantica”, cioè limitata ai Paesi vincitori affacciati sull’oceano con lo scopo essenziale di proteggere il traffico marittimo. Gli Stati Uniti, d’altra parte, non volevano essere coinvolti in una coalizione che fosse chiamata a difendere militarmente gli imperi coloniali di Francia e Gran Bretagna in fase di disfacimento.
In questo quadro, l’idea di allargare il Patto atlantico all’Italia i urtava con una serie di obiezioni, soprattutto da parte inglese. Dal punto di vista delle capacità militari il Paese, distrutto dalla guerra, era irrilevante. Il suo ingresso avrebbe spostato l’asse dell’Alleanza verso il Mediterraneo e il Sud Europa. La situazione politica interna, in particolare prima delle elezioni del ’48, era considerata ancora instabile. La questione diTrieste restava irrisolta e fonte di possibili tensioni internazionali. Inoltre ammettere Roma tra i fondatori del Patto l’avrebbe emancipata dalla condizione di nazione sconfitta, indebolendo le rivendicazioni di Londra sulla gestione delle ex colonie italiane come Libia, Eritrea e Somalia.
Se questi erano gli ostacoli diplomatici che Sforza si trovava ad affrontare sul piano internazionale, quelli di politica interna erano anche maggiori. L’opposizione, composta da socialisti e comunisti, ma anche dai neofascisti del Movimento sociale, era ferocemente contraria ad un’alleanza con gli americani. E l’idea non piaceva neppure ad una larga fetta della Dc che si riconosceva nella corrente dossettiana e che in parte votò poi contro la ratifica del Trattato. Più in generale, l’opinione pubblica non voleva sentir parlare di guerra. Persino il Vaticano, che poi avrebbe rapidamente cambiato idea, nell’estate del ’48 si era pronunciato contro l’adesione ad una alleanza militare.
Dopo un secolo di sciagurata retorica nazionalista perseguita dai Savoia e dal fascismo, l’idea di un neutralismo pacifista allettava molti. Tanto che De Gasperi, pur impegnato in una campagna elettorale fortemente anticomunista, aveva preferito non aprire il dibattito pubblico sulla Nato prima delle elezioni politiche di primavera.
Alla fine, le difficoltà interne del fronte atlantista si erano faticosamente ricomposte grazie alla determinazione di De Gasperi, dei laici come Sforza, alle pressioni del corpo diplomatico, all’evidenza dell’incompatibilità tra i regimi comunisti sovietici e la democrazia e anche ad un ripensamento di papa Pio XII. Più arduo era stato superare gli ostacoli internazionali. Per farlo, il governo italiano aveva dovuto puntare sull’appoggio della Francia. Agli inizi del 1949 Sforza, già allora un convinto europeista, aveva incontrato a Parigi il suo collega Robert Schuman che aveva caldeggiato la partecipazione dell’Italia sia per rendere il Patto meno “anglosassone”, sia per spostare il baricentro dell’Alleanza verso il Sud e il Mediterraneo. Di fronte alle resistenze britanniche, Schuman aveva dovuto minacciare il ritiro della Francia dai negoziati. Alla fine l’aveva spuntata, con l’aiuto determinante degli americani, molto attenti al governo De Gasperi, ma a condizione che l’Italia non partecipasse neppure ai negoziati preliminari e abbandonasse ogni pretesa sulle ex colonie.
Così fu. In quella piovosa giornata del 4 aprile 1949, Carlo Sforza entrò nell’Auditorium di Washington per firmare, con Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Portogallo, Norvegia, Danimarca e Islanda, un Trattato che non aveva contribuito a preparare. Ma al grande diplomatico antifascista questo bastava. La sua sola presenza, in quella sala sfarzosa, voleva dire per l’Italia che il dopoguerra era davvero cominciato, sia pure nel segno di una nuova guerra fredda che sarebbe durata per un altro mezzo secolo. «La triste storia dell’Europa ci ha insegnato che nessuna nazione può confidare nella prosperità e nella pace se tutti i suoi vicini non marciano verso gli stessi obiettivi», disse nel suo discorso davanti ai nuovi alleati. Parole consone a celebrare la nascita, forse ancora inconsapevole, dell’Occidente.
Da quel giorno, il mondo cambiava faccia. Niente sarebbe più stato come prima.