la Repubblica, 4 aprile 2024
Intervista a Don Gino Rigoldi
MILANO – Cappellano per 50 anni al carcere minorile “Beccaria” di Milano, don Gino Rigoldi, 84 anni, ha passato le consegne da pochi giorni a don Claudio Burgio, prete con cui collabora da vent’anni. Poi è entrato in ospedale per un piccolo intervento al cuore, ma sorride come sempre quando lo incontriamo nel giardino assolato della sede della sua fondazione, a Bisceglie, periferia sud ovest della città.
Don Gino, due anni fa, la notte di Natale, c’è stata la clamorosa evasione di sette ragazzi, che lei ha contribuito a rintracciare.
«Sì, la situazione al Beccaria era alla deriva e loro lo sentivano. Siamo stati per vent’anni senza un direttore, a volte andavo io ad aprire e chiudere le celle. La loro fuga è stata in qualche modo “salutare” perché finalmente al ministero si sono accorti che esistevamo. Non era possibile fare nessun progetto, eravamo in un cantiere eterno, 16 anni per la ristrutturazione».
Quindi, saluta i suoi ragazzi?
«Vado tutti i giorni al Beccaria e continuerò a farlo per i giovani che seguo. Ce n’è uno che si aspetta che io lo prenda in casa quando avrà finito di scontare la sua pena».
Abita in casa con ex detenuti?
«Sì, da molto tempo. Sono tutti nordafricani, semianalfabeti, senza famiglia. Dovremmo essere in 7, ma siamo in 14, e ne stanno uscendo altri due dal carcere di Opera. Devo ritagliare altri posti nella villetta».
Non ha paura a vivere da solo con 14 giovani usciti di galera?
«Non ho mai avuto paura delle relazioni. È la parola cardine del mio pensiero e del mio lavoro. Non ho mai giudicato: la paura è già un giudizio.
Gli adolescenti aprono la porta, se sentono che tu dai loro valore, se sei pronto ad ascoltarli».
Uno di questi ragazzi senza famiglia lei l’aveva adottato.
«Ora sono a cinque adozioni. Mi chiamano papà. Portano il mio cognome. Uno dei miei figli è morto per un incidente stradale due anni fa. È stato un grande dolore».
Perché lo fa?
«Arrivano soli, senza documenti, finiscono in carcere per piccoli reati contro il patrimonio, si mettono nei guai per la sopravvivenza. Non hanno nessuno fuori dal carcere. Ho dato ad alcuni la possibilità di costruirsi un futuro. Non ho mai avuto problemi con loro: rispettano le regole. Più difficile è portarli a trovare un lavoro.
Per loro un posto da operaio del cartongesso è la manna».
Il carcere aiuta i ragazzi?
«Premesso che ognuno deve pagare per i suoi sbagli, non è con il carcere che si insegna a vivere. Bisogna incontrare qualcuno che ti ascolti e che ti aiuti a immaginarti in un contesto diverso. Nessuno deve essere identificato col suo reato».
In carcere ha conosciuto anche Erika e Omar, subito dopo il delitto di Novi Ligure.
«Omar era un ragazzino molto bello, ma semplice, manipolato. Erika aveva personalità, era forte, aveva una testa particolare, non era facile entrare in confidenza, si apriva solo con un’educatrice. Io ricevevo centinaia di lettere di ragazze sue fan che le scrivevano che avrebbero voluto fare come lei».
Si sono mai pentiti?
«Non so. Ho parlato tanto col padre di Erika, era un ingegnere, uomo di forte rigore, alto senso di responsabilità, forse anche di colpa, per non aver potuto impedire quello che era successo. Mi disse che aveva perdonato. Col tempo succede. E quando uno riesce a farlo, respira».
Le sono sempre piaciuti i ragazzi che trasgrediscono, che peccano.
«Ho cominciato a occuparmene a fine anni ’70, al Giambellino e a Baggio, periferie dure e abbandonate. C’era la criminalità, la miseria, arrivò anche l’eroina. Fu una strage. Continuo ad occuparmi di periferie, non meno povere e disagiate, ma è cambiato il panorama umano. Ai figli dei proletari del sud, si sono sostituiti i figli dei migranti. Pensavano che in Italia ci fosse il paese dei balocchi, ma rimangono ai margini, invidiosi di un benessere dal quale sono esclusi».
Almeno non le muoiono con una siringa nel braccio.
«Ho dovuto celebrare 200 funerali per l’Aids, non c’erano i farmaci retrovirali. Poi ci sono state tante overdose, tanto dolore. Avevo le sedi di Comunità nuova piene, genitori che mi pregavano in lacrime di trovare un posto per i figli».
Eppure lei è stato sempre anti proibizionista negli anni in cui drogarsi era un reato.
«Quando uno si droga, la punizione serve a poco, meglio fare prevenzione e creare alternative all’eroina, che dà un grande piacere agli abbandonati. Più che reprimere, meglio dare amicizia. La mia ricetta è relazione. Io non giudico. Ascolto».
Ha aiutato tanti rampolli di note famiglie milanesi, immagino.
«L’eroina era un problema trasversale, come la cocaina e gli acidi. Avrò aiutato 40 o 50 mila ragazzi, dall’inizio. Ci andavano di mezzo i poveri cristi come i figli di papà, solo che i primi più facilmente ci lasciavano le penne perché non avevano i soldi per curarsi. Oggi ci sono farmaci micidiali, Rivotril o Lyrica, che mixati ad alcol, portano ad allucinazioni, mettono addosso una forza bestiale e cieca».
Nei salotti di Milano, lei ha tanti amici, penso alla famiglia Moratti.
«Massimo mi è stato vicino sempre, mentre Gian Marco e Letizia aiutavano Muccioli. I miei metodi erano diversi da quelli di Vincenzo. La coercizione non penso sia un buon metodo per tirare fuori dalla droga. Sono sempre stato per la relazione e la riduzione del danno, distribuzione di siringhe e preservativi per evitare la diffusione dell’Aids e dell’epatite».
Anche Jovanotti è amico suo.
«Abbiamo aperto assieme il Barrio’s alla Barona, una specie di centro sociale dove prima era il deserto. C’è il bar, la sala musica, facciamo concerti, mostre, feste, stage, centri estivi, corsi».
Lei è un “prete di strada”, ha sempre fatto di testa sua. Il suo rapporto con l’istituzione Chiesa com’è stato?
«Mai conflittuale, ma spesso a distanza. Carlo Maria Martini venne a vedere quel che facevo, dato che non gli chiedevo mai il permesso. Mi disse: “Vai avanti così”. Col cardinale Tettamanzi eravamo in sintonia, ma andai dall’arcivescovo Angelo Scola per dirgli che il suo discorso di Sant’Ambrogio era incomprensibile, sembrava una lectio magistralis».