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 2024  aprile 04 Giovedì calendario

Conciliare profitto e solidarietà ecco come Ivrea può far rivivere Olivetti

Come riconciliare oggi, allora, il profitto con la solidarietà, l’impresa con la cultura, la tecnologia con la persona, la dimensione locale con quella globale, la proprietà pubblica con quella privata? Perfino la vita attiva con quella contemplativa? Molte delle domande più pressanti della contemporaneità possono ancora trovare nella vicenda olivettiana un bacino prezioso di riflessioni con cui confrontarsi, di buone pratiche da cui lasciarsi ispirare. Per quanto riguarda la mia città, mi chiedo se possa ancora offrire qualche stimolo al dibattito nell’Italia contemporanea, giocare qualche tipo di ruolo. Forse nessuno meglio di Cino Zucchi, l’architetto incaricato della riqualificazione delle Officine Ico su mandato della nuova proprietà, ha descritto il bivio di fronte al quale Ivrea si trova. Lo riporto perché credo possa riguardare molte altre città, molti altri territori italiani alle prese con un passato allo stesso tempo prezioso e ingombrante: «In questo momento, come è necessariamente accaduto in un’intera generazione di città industriali più grandi come Detroit o Liverpool, essa deve gradualmente abbandonare la propria “nostalgia della perdita”, ovviamente della realtà economica e sociale generata dall’Olivetti dei propri tempi migliori. Elaborare il lutto e aprirsi a un modello più policentrico: tenere vivo lo spirito innovativo e la progettualità che Olivetti aveva saputo infondere in tutta la città, ma svilupparli in più componenti diverse. Mentre la progettualità e l’innovazione industriale di un tempo aveva a che fare con i “grandi capitani”, con la politica e con l’intero Paese, essa ha oggi una natura più articolata e policentrica. Si pensi al tema dei distretti di cui tanto si parla: in essi c’è meno la presenza di una figura carismatica, ci sono invece tanti saperi che continuano a dialogare tra loro in maniera incrociata, comprendendo le virtù di un “gioco a somma positiva” tra soggetti diversi. Più che dalla leadership di una sola persona, essi sono animati da una sorta di campo magnetico. Lo stesso luogo della Olivetti deve forse trasfigurarsi. Per ospitare questa realtà più multiforme e pluralista, per raccogliere sfide globali sempre più difficili, gli stessi spazi della Ico devono trasformarsi in qualcosa dal carattere più articolato seppur fondato sulle matrici che li hanno generati. Se rendessimo ogni cosa del passato un monumento, se considerassimo ogni sua eredità fisica un documento intoccabile, nelle città italiane – uno dei luoghi più stratificati del mondo – non ci sarebbe più posto per le nostre vite.
Ivrea, come molte altre città, ha bisogno di vivere nel presente sulla base del suo irriproducibile, e per questo così importante, passato. A Milano il collegio dei Gesuiti è diventato la Pinacoteca di Brera, e l’Ospedale Maggiore è diventato università: i loro cortili porticati, proprio in virtù della loro chiarezza e identità spaziale, si prestano a diventare nel tempo cose del tutto diverse e pur collegate da un ruolo comunitario».
Semplificando un po’ le cose, abbiamo davanti a noi due direzioni: o cediamo totalmente alla tentazione dello storytelling e ci accontentiamo “soltanto” di una ricaduta turistica della nostra storia industriale, facendo di Olivetti e della sua cittadella un monumento; o apprendiamo più faticosamente questa lezione, la metabolizziamo, proviamo a declinarla nei processi che attraversano la città in quanto piccola parte del mondo contemporaneo. Quest’ultima è la strada che vorrei che la mia città seguisse. Di opportunità per cominciare ce ne sarebbero tante. Per esempio, potremmo farlo ponendo a noi stessi domande sufficientemente insolenti da aiutarci a misurare la distanza fra il metodo olivettiano e la qualità del nostro lavoro di oggi. Una a caso: quanta cura, quanta passione, quanta bellezza troviamo nei moduli didattici sui quali i nuovi abitanti del Canavese imparano la nostra lingua? Che ruolo giocano l’arte e la cultura nel processo di integrazione di queste persone, che è una delle sfide più decisive per la costruzione di una nuova identità del territorio? È una sfida percepita come gloriosa, o da viversi passivamente? Quanto posto hanno ancora la fretta e l’improvvisazione in quello che facciamo? In che misura riescono a cooperare soggetti diversi? Quante porte girevoli troviamo? Infine, si potrebbe cominciare anche recuperando un po’ di pudore, o perfino un po’ di sana superstizione, capire che bisogna desiderare il futuro in operoso silenzio, senza chiamarlo troppe volte per nome, senza tirarlo per la giacca continuamente, senza metterlo in testa a tutti i progetti tanto per fare. Altrimenti scappa lontano. Quando sento questa parola pronunciata con un po’ troppa disinvoltura, mi viene in mente la canzone Montesole dei Pgr (Per Grazia Ricevuta), scritta, credo, all’inizio degli anni Duemila. Una canzone in cui si parlava d’amore, ma senza chiamarlo in causa. Se non nel ritornello, che Giovanni Lindo Ferretti porgeva al pubblico come una salmodia: «L’amore non cantarlo, che si canta da sé | più lo si invoca, meno ce n’è».