La Stampa, 4 aprile 2024
L’arma della fame
Un attacco a un convoglio, una rotta sicura che sicura non era, sette morti e le forze armate israeliane che il giorno dopo garantiscono di «indagare sull’incidente». Non è l’inizio di aprile del 2024 e non è Gaza. È il 2006, la guerra è in Libano, il convoglio colpito è a Marjayoun. All’inizio di agosto del 2006 l’esercito israeliano conquista la base di quello libanese a Marjayoun, città cristiana a otto chilometri dal confine. Unifil, in contatto con le truppe di Tel Aviv, organizza l’evacuazione, predisponendo un percorso pianificato in direzione Beirut e scortando i mezzi. Secondo l’allora portavoce delle Nazioni Unite, Milos Strugar, le forze israeliane erano state informate in anticipo del passaggio del convoglio e avevano dato il via libera. Rotte definite sicure dalle forze israeliane, dunque. Eppure poche ore dopo centinaia di veicoli carichi di forze armate libanesi, civili, e un giornalista dell’Associated Press, viene attaccato dall’aeronautica israeliana. Otto bombe che uccisero 7 persone e ne ferirono 36. Allora come oggi l’esercito israeliano promise un’inchiesta dettagliata, allora come oggi dichiarò di aver «identificato movimenti sospetti lungo la rotta».
Tragiche analogie o consuetudine?
Ieri, Itay Epshtain, consulente in diritto e politiche umanitarie e consigliere speciale di Nrc (Norwegian Refugee Council), ha scritto che «l’uccisione mirata da parte di Israele degli operatori umanitari della World Central Kitchen non è un tragico incidente, come affermato dai funzionari israeliani, ma il culmine di problemi normativi che risalgono a decenni fa» e che hanno legittimato un atteggiamento permissivo dell’uso della forza. Epshtain, riannodando i fili della storia e guerre più recenti di quella libanese, cita eventi legati al conflitto a Gaza del 2009, quando l’esercito israeliano attaccò varie sedi delle Nazioni Unite, come il centro sanitario di Bureij, dove – si legge nel rapporto stilato dopo l’attacco – le forze armate non avevano fatto «sforzi sufficienti né preso precauzioni per proteggere né i civili né il personale delle Nazioni Unite». Violazioni diventate sistemiche che non potevano essere giustificate dall’opportunità militare, «un degrado giuridico» lo definisce Epshtain, che ha portato negli anni ad attacchi «privi di adeguata distinzione e precauzione».
L’attacco di due giorni fa, che conta tra le vittime anche operatori occidentali, è solo l’ultimo di una lunga lista che, dall’inizio della guerra, ha ucciso 173 membri e colpito 161 strutture delle Nazioni Unite e ucciso centinaia di civili che in quelle strutture cercavano riparo.
Per il primo ministro Netanyahu un «errore» su cui un «organismo indipendente condurrà un’indagine approfondita».
Per il presidente statunitense Joe Biden, suo più stretto alleato, è la prova che Israele «non sta proteggendo gli operatori umanitari di cui i civili hanno disperatamente bisogno».
La fame come arma di guerra
Un giorno prima dell’attacco al convoglio di World Central Kitchen (Wck) a Deir Al-Balah, la rivista statunitense The New York Review ha pubblicato un lungo e dettagliato articolo di Neve Gordon e Muna Haddad, studiose ed esperte di diritti umani sul conflitto israelo-palestinese. Il titolo era «La strada verso la carestia».
Gordon e Haddad non si limitano a ricostruire le dichiarazioni dei leader politici e dei vertici delle forze armate israeliane dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre (a Gaza «non esistono sono civili innocenti», Presidente Isaac Herzog, 13 ottobre; «non entreranno un grammo di aiuti umanitari... solo centinaia di tonnellate di esplosivi», ministro Itamar Ben Gvir 17 ottobre; «Non permetteremo l’assistenza umanitaria sotto forma di cibo e medicinali dal nostro territorio alla Striscia di Gaza», Primo Ministro Benjamin Netanyahu, 18 ottobre, etc), ma ripercorrono il controllo che dal 1967, anno in cui occupò per la prima volta la Striscia di Gaza, Israele ha fatto del paniere alimentare palestinese, modificando l’apporto nutrizionale dei suoi abitanti e utilizzando il cibo come arma per gestire la popolazione.
«Per decenni – scrivono le studiose – Israele ha sistematicamente danneggiato la capacità della Striscia di produrre i propri generi alimentari, diminuendo il suo accesso all’acqua potabile e al cibo nutrizionale».
Quando Israele ha occupato Gaza, vivevano lì circa 400 mila palestinesi, il 70% rifugiati, fuggiti o espulsi dalle loro case durante la Nakba (la catastrofe dello sfollamento forzato) del 1948. Per decenni Israele ha controllato tutto: acqua, elettricità, medicine e ospedali, sistema giudiziario e istruzione.
Fino alla fine degli anni Ottanta la strategia sul cibo fu quella di garantire o aumentare l’apporto calorico pro capite degli abitanti per – riportano gli Archivi di Stato Israeliani – «normalizzare l’occupazione e placare la resistenza».
Farli mangiare di più e meglio, insomma, affinché i rifugiati palestinesi si rassegnassero a non voler tornare da dove venivano.
Poi, nel 1987, dopo la prima Intifada, l’atteggiamento è cambiato: la limitazione del valore nutrizionale e la creazione di insicurezza alimentare tra i palestinesi di Gaza sono diventate centrali nella strategia di contro-insurrezione. Nel 2000, dopo la seconda Intifada, Israele ha limitato progressivamente la circolazione di persone e merci, distrutto fattorie, raso al suolo terreni agricoli, sradicato alberi, consolidato il controllo aereo e marittimo tanto che due anni dopo il British Medical Journal riferì che il numero di bambini a Gaza affetti da malnutrizione era raddoppiato in meno di 24 mesi. Nel 2005 Israele ha smantellato gli insediamenti nella Striscia, circondandola di basi militari e creando una zona cuscinetto che ha divorato e eroso altri terreni agricoli palestinesi poi, nel 2007, quando Hamas ha vinto le elezioni e preso il potere, Israele ha imposto un blocco totale, limitando il carburante, l’elettricità e consentendo l’accesso solo ai beni essenziali alla sopravvivenza: «Gli alimenti vietati includevano cioccolato, coriandolo, olio d’oliva, miele e alcuni frutti, tutti definiti da Israele come “articoli di lusso”. La quota di carne fresca per l’intera popolazione era fissata a trecento vitelli alla settimana».
Nel 2012, dopo una battaglia legale di tre anni e mezzo dell’organizzazione per i Diritti Umani Gisha, il governo israeliano è stato costretto a pubblicare un documento confidenziale del 2008 in cui descriveva «le linee rosse per il consumo di cibo nella Striscia di Gaza», mentre il governo guidato dall’allora primo ministro Ehud Olmert inaspriva le restrizioni alla circolazione di mezzi e persone. Il documento calcolava il numero minimo di calorie necessarie a garantire un’alimentazione sufficiente alla sussistenza senza lo sviluppo di malnutrizione e serviva a determinare la quantità di alimenti che potevano essere ammessi ogni giorno. In media, il minimo ammontava a 2.279 calorie pro capite al giorno, che potevano essere fornite da 1.836 grammi di cibo, ovvero 2.575 tonnellate di cibo per l’intera popolazione di Gaza. Le statistiche servivano per capire a quanti tir consentire l’accesso, quali fossero le linee rosse per non scendere sotto i livelli di guardia della malnutrizione e quali alimenti fossero ritenuti non indispensabili. Per esempio: l’hummus semplice poteva entrare, quello con i pinoli no. Era ritenuto bene di lusso.
Nel 2022 l’Unrwa ha fornito cibo a più di un milione di rifugiati a Gaza, quattordici volte di più rispetto al 2000, scrivono Gordon e Haddad.
A fine 2022, l’81% dei rifugiati nella Striscia viveva al di sotto della soglia di povertà, l’85% delle famiglie acquistava cibo dagli scarti dal mercato e più di tre quarti delle famiglie stavano riducendo sia il numero di pasti giornalieri sia la quantità di cibo in ciascun pasto.
Da ben prima che Hamas attaccasse Israele il 7 ottobre, la crisi umanitaria a Gaza era nota a tutti. Già prima il cibo che entrava nella Striscia era ampiamente insufficiente.
Aiuti internazionali bloccati
Il 1° aprile, le Nazioni Unite hanno diffuso l’ennesimo appello per chiedere di sbloccare l’accesso degli aiuti umanitari, appello che fa seguito agli ordini della Corte Internazionale di Giustizia (Icj) che ha chiesto a Israele di rispettare i suoi obblighi come firmatario della Convenzione sul genocidio e aprire i valichi di frontiera per consentire l’ingresso di aiuti sufficienti nell’enclave. Oggi, a quasi sei mesi dal 7 ottobre, a Gaza sono morte oltre 32 mila persone, più di 13 mila bambini. I feriti sono 75 mila, tre quarti delle infrastrutture civili sono distrutte o danneggiate e il 75% della popolazione ante guerra della Striscia, cioè un milione e settecentomila persone, è sfollata dalle proprie abitazioni. I palestinesi continuano a morire sotto le bombe, oppure mentre cercano di sfamarsi. Una dozzina sarebbero rimasti uccisi dai lanci aerei di pacchi alimentari, morti annegati mentre cercavano di recuperarli in mezzo al mare, o morti perché colpiti dalla caduta di scatole di aiuti.
Dopo l’attacco al convoglio di World Central Kitchen, Anera, un gruppo umanitario con sede a Washington che opera nei territori palestinesi da decenni, ha sospeso le operazioni a Gaza, dove aveva contribuito a fornire circa 150 mila pasti al giorno. E, secondo il sito americano Axios, gli Emirati Arabi Uniti, principale finanziatore della rotta che guida gli sforzi per portare cibo via mare a Gaza, avrebbero deciso di interrompere il loro coinvolgimento nel corridoio marittimo verso Gaza finché Israele non avrà assicurato che gli operatori umanitari nell’enclave saranno protetti. Anche World Central Kitchen ha sospeso le attività nella regione.
«Questo non è solo un attacco contro il Wck – ha scritto ieri Erin Gore, Ceo dell’organizzazione – è un attacco alle organizzazioni umanitarie che si presentano nelle situazioni più terribili in cui il cibo viene utilizzato come arma di guerra. E questo è imperdonabile».