la Repubblica, 3 aprile 2024
Quanta vita c’è su una lavagna
Nel nostro tempo si inneggia alla vita vera contrapposta al sapere sterile della Scuola. Un noto imprenditore e un altrettanto noto saggio prestati alla televisione, in modi diversi ma sostanzialmente simili, ci ricordano che la vera Scuola non è la Scuola, ma la vita vera di cui il sapere scolastico sarebbe solo una pallida imitazione.
E come dare loro torto? L’intraprendenza nella vita vale assai di più di qualunque forma di sapere scolastico; i veri insegnamenti non provengono dal sapere ma dall’esperienza; la formazione più autentica è quella che scaturisce dall’impatto, talvolta anche crudele, con la vita; non è la Scuola ma la vita vera che insegna quello che a Scuola non si può imparare. Eppure esiste una vita della Scuola che nel bene e nel male ha contribuito e contribuisce ancora oggi in modo essenziale a dare una forma singolare alla vita di ciascuno.
Quale vita sarebbe? Innanzitutto la vita del sapere. Ma può esistere un sapere che sia al servizio della vita? Non dovremmo mai dimenticare che il sapere della Scuola non è solo un accumulo di nozioni o di informazioni suddiviso per discipline specialistiche, ma che è innanzitutto il luogo di un incontro. Con cosa? Con una luce. Se hanno ragione il noto imprenditore e il saggio televisivo a criticare una versione polverosa e antiquata della Scuola che distribuirebbe solo un sapere nato già morto, essi hanno del tutto torto a confondere questa versione della Scuola con la vita della Scuola tout court.
La Scuola non è solo un dispositivo disciplinare o burocratico, privo di anima, che ricicla un sapere morto, ma è anche una esperienza possibile della luce. È accaduto a molti che mentre facevano esperienza del danno che la Scuola-dispositivo può provocare in una giovane vita, facevano anche, proprio nello stesso tempo e nello stesso luogo, esperienza di un incontro con una testimonianza della forza vitale di un sapere che avrebbe cambiato per sempre la loro vita. Sono le due anime della Scuola: quella foucaultiana della Scuola-dispositivo e quella heideggeriana della Scuola-radura. Se nella prima il soggetto può sentirsi macinato, annoiato, assoggettato ad un sapere del tutto sganciato dalla vita, nella seconda diviene possibile incontrare il sapere come luce, come una radura che improvvisamente si apre nel mezzo del fitto del bosco.
Questa seconda anima rovescia la rappresentazione della Scuola come luogo separato dalla vita. Cos’è, infatti, la vera vita se non quella luce, quella radura, quell’esperienza di illuminazione che l’incontro con un testimone del sapere rende possibile? La Scuola non dovrebbe essere innanzitutto questo? Un luogo dove il sapere acquista vita, diviene vita viva?
È quello che accade quando un maestro commenta un libro mostrando che non ci sono da una parte i libri e dall’altra l’esperienza, come se i libri costruissero un mondo di carta che l’impatto con il mondo reale farebbe immediatamente saltare per aria. Chi lo dice che un libro è meno reale del mondo cosiddetto reale? Chi può dire che la vita della Scuola è meno vera della vita cosiddetta reale? Non sono forse il libro e la Scuola luoghi dove i nodi più profondi della vita vengono al pettine? Non sono quei luoghi dove la vita trova la sua linfa più propria? L’inganno, il tradimento, la lotta, la sopravvivenza, la resistenza, la sofferenza, la vita e la morte non impregnano la carta di ogni libro degno di questo nome?
L’imprenditore e il saggio televisivo forse non si rendono conto che la loro legittima critica della Scuola come luogo di un sapere inutile alla vita cela con sé il mito ipermoderno della cosiddetta “autoformazione”, ovvero l’illusione di una formazione che, senza passare da nessun Altro, si costituirebbe da sé medesima. La natura perversa di questa concezione della formazione è evidente: si vorrebbe negare la funzione fondamentale che il rapporto tra le generazioni esercita in ogni processo di formazione per affermare l’idea che, in fondo, si può divenire genitori di se stessi. Anche in questo caso c’è qualcosa di vero: non c’è formazione se non c’è effetto di soggettivazione. Nondimeno questo effetto non scaturisce dal soggetto stesso, ma è generato solo dall’incontro con l’Altro. Può essere anche l’incontro con della semplice polvere di gesso. È quello che mi ha raccontato una volta un professore liceale di fisica che aveva individuato la nascita della sua passione per la fisica dall’impressione che su di lui avevano lasciato le lezioni del suo vecchio professore, talmente immerso nella sua spiegazione alla lavagna, che usciva dall’aula ogni volta ricoperto di gesso bianco. Quando si accorse che accadeva lo stesso quando terminava le sue lezioni ai suoi giovani studenti, intuì che in quella polvere di gesso c’era della luce. Ecco un esempio di trasmissione del desiderio di sapere da una generazione all’altra; ecco un esempio della vita della Scuola.
Alcuni hanno invece pensato che per ricoprire il gap che separa la vera vita dalla Scuola fosse necessario agganciare la Scuola al mondo del lavoro. Errore: non serve parcheggiare i nostri figli in luoghi professionali prima del tempo. A loro serve della polvere di gesso che assomigli alla luce.