la Repubblica, 3 aprile 2024
L’Italia secondo Eugenio Scalfari: il contagio delle idee
Lo spettacolo “L’Italia secondo Eugenio”, di e con Stefano Massini, andrà in scena sabato 6 aprile, alle ore 19, all’Auditorium Parco della Musica di Roma. Ingresso gratuito, prenotazioni qui
Dentro un teatro vuoto, magnifico ma senza pubblico, contano solo le parole, insieme con le espressioni del volto, i gesti e i movimenti di chi le pronuncia. Sono le parole di Eugenio Scalfari, selezionate per ricordarlo nel giorno centenario della sua nascita, il 6 aprile. Ha attraversato il secolo, l’ha indagato e testimoniato, lo ha vissuto e soprattutto lo ha interpretato attraverso uno strumento fatto di due elementi materiali poveri e antichi, la carta e l’inchiostro, a cui in realtà si aggiungono il pensiero, la passione civile e una certa idea dell’Italia e del mondo.
È il giornale, anzi il quotidiano, termine che rivela l’obbligo e il privilegio di confrontarsi ogni giorno con la realtà, di decifrarla e di riprodurla nella scrittura e nello sfoglio per il lettore, in modo che dal suo angolo minimo e personale possa conoscere e capire la giornata che abbiamo attraversato, la fase che stiamo vivendo: e attraverso questa comprensione-partecipazione riesca a diventare compiutamente cittadino, informato dei fatti che deve giudicare.
Bisognava ricordare Scalfari cent’anni dopo, attraverso la lente di Repubblica, perché erano una cosa sola: raramente un giornale è così segnato dall’impronta del suo fondatore, che ha lasciato la sua traccia nelle pagine e nelle redazioni, nelle persone e nella cifra di giornalismo che ha scelto e praticato, con la magnifica e perenne condanna all’innovazione e al cambiamento.
Stefano Massini si è immerso in un intero giacimento di giornali, sfogliando le copie di Repubblica di quarant’anni, per rileggere più di mille articoli di Scalfari ed estrarre con la sua rabdomanzia quei passaggi che segnano la storia del Paese, la commentano e la indirizzano, la denunciano e la spiegano. Polemiche e critiche, editoriali e corsivi, interviste, recensioni, racconti.
Frammenti di anni drammatici, di svolte e sorprese, di insidie e pericoli, tenuti insieme settimana dopo settimana da un’ostinata passione civile, un’attenzione costante allo stato della democrazia, nelle istituzioni e nella società, dove la misurano i cittadini, e dove abitano anche i giornali, che fanno parte della vita di un Paese, non della sua rappresentazione.
Massini ha trasformato tutto questo in un giornale parlante, dove le frasi sono tutte di Scalfari e lui le riproduce da attore che si fa strumento del testo, lo agisce e lo vive; ma soprattutto ha trasportato l’insieme – le parole, i concetti, i titoli, gli avvenimenti, le pagine del giornale, il carattere di Repubblica e la personalità di Scalfari – in un’altra dimensione, come se fosse riuscito a dare una verticalità all’orizzonte della scrittura.
È la trasposizione della drammaturgia che rompe le separazioni dei generi e mette in movimento i soggetti e le idee, unisce l’azione all’opinione, evoca le immagini insieme con le memorie, sfonda la distanza del tempo e aggiunge ad ogni passo una nuova suggestione.
È una realtà arricchita dove il giornalismo viene chiamato fuori dai suoi confini, a farsi spettacolo col suo solo scheletro di concetti e di cronaca, senza orpelli e tecniche artificiali. Uno spettacolo nudo, fatto di parole e di idee, scandito dai fatti, inseguiti, indagati e talvolta anticipati dal giornalismo.
Adesso questa “cosa” che ci coinvolge e ci interpella è qui, in una sorta di prova generale per sette o otto spettatori venuti dal mondo di Repubblica insieme con Enrica e Donata, le figlie di Eugenio, nel buio della sala vuota, alla “Pergola” di Firenze.
Accompagnato dalle musiche dal vivo di Saverio Zacchei, Massini cammina tra i testi di Scalfari e le vicende italiane, le annoda, le scioglie e le collega agli anni che abbiamo vissuto: poi prende la biforcazione angosciosa del caso Moro, risale a un’antica polemica con D’Alema, recupera l’immagine del primo Berlusconi nel giorno della metamorfosi politica, rivisita un attacco al linguaggio democristiano di Oscar Luigi Scalfaro, arriva al dramma dei migranti, con i barconi albanesi additati come pericolo pubblico e la previsione di Scalfari che dopo l’Ovest si muoverà verso l’Europa il Sud del mondo, in cerca di nuovi spazi di libertà.
L’ immersione è totale, il contagio delle idee è inevitabile, per chi ha conosciuto Eugenio e anche per chi lo ha solo letto. E coi minuti che passano, lo spettacolo diventa autonomo anche dall’occasione, dal personaggio: finché Massini lo ricompone nel finale, caricando il suo procedere intellettualmente mimetico tra le parole anche della fatica fisica della vecchiaia, come se Scalfari infine sentisse il peso del secolo, o come se con il costo degli anni pagasse anche il prezzo della conoscenza, per aver fissato Medusa.
Prima che si riaccendano le luci, c’è un’ultima sensazione: che le parole messe in fila e ordinate dalla realtà fino a diventare teatro ci regalino un antidoto al mal sottile del giornalismo, che è la condanna all’effimero, in quanto la cosa che hai scritto, indipendentemente dal suo valore, ha una durata breve, finisce il giorno dopo, nel momento in cui il lettore volta l’ultima pagina del quotidiano.
E invece, Massini lo dimostra, c’è al fondo dell’effimero qualcosa che resta perché è qualcosa che vale, e per questo dura: è il deposito di significato che il giornale accumula in ogni suo articolo, la ricerca di senso che lo muove per tutta la giornata, e che Eugenio ha inseguito per tutta la vita.