Domani, 3 aprile 2024
Il secolo di Scalfari è finito Le sue lezioni restano vive
Eugenio Scalfari se n’è andato da poco, e il 6 aprile saranno già cento anni dalla sua nascita. Averlo ascoltato e letto, aver avuto il privilegio di incontrarlo, lo rende ancora vivo e fa sembrare più straniante questa celebrazione per il suo centenario, e il tentativo di farne un’icona.
Effigiato, ritualizzato, monumentalizzato come un busto risorgimentale, canonizzato come una specie di padre Pio laico del giornalismo. Perché sembra di vederlo ancora, Scalfari, in ascensore, in macchina con Dario, nella sua stanza, il girocollo giovanile, mentre volta le pagine di un giornale, il suo giornale, e segnala errori di titolazione e di impaginazione, sfoglia il mondo e cerca una spiegazione, anche quando quel mondo non era più il suo.
Giornale-partito
L’anniversario della sua nascita coincide, di nuovo, con testate comprate e vendute, lo smantellamento di un grande gruppo editoriale, per citare la parola utilizzata in un comunicato dagli stessi giornalisti di Repubblica, i figli e i nipoti della testata che lui fondò nel 1976, il rischio che l’Agi, la seconda agenzia di stampa italiana, passi dalla proprietà della più importante società di Stato (Eni) alle mani di Angelucci, parlamentare della maggioranza di governo.
E consente quindi di riflettere ancora su cosa è stato, cosa fu, dalla seconda metà del Novecento, e fino a poco tempo fa, il giornalismo politico di Scalfari e del gruppo di cui fece parte, dal Mondo all’Espresso alla Repubblica. Giornalismo politico, prima di tutto, e non giornalismo genericamente inteso. Un giornalismo non puro ripetitore di notizie già trasmesse da altri, non rassicurante semaforo del traffico intasato dei fatti del giorno sganciati da una interpretazione. Un giornalismo che ambiva a incidere sulla politica, sui meccanismi delle istituzioni, sulle scelte dei partiti e dei loro leader, come il Pci di Enrico Berlinguer, la Dc, i socialisti, i repubblicani. Un giornale-partito, come lo chiamavano gli avversari, ignari di fare un omaggio a un’operazione editoriale che costruiva un soggetto da sempre latente in Italia, l’opinione pubblica, contribuendo in modo determinante alla modernizzazione del paese.
Un punto di vista
«Indipendenza editoriale: una vera e propria dote su cui ero certo di poter contare, quella struttura d’opinione liberal che s’era formata a partire dal Mondo, s’era consolidata e allargata in vent’anni di Espresso e che ritenevo mi avrebbe sostenuto e seguito fin dall’inizio; tre settori di pubblico poco o niente frequentati dai concorrenti, cioè giovani, donne, comunisti; infine, una formula editoriale e giornalistica del tutto diversa da quelle tradizionali: con queste armi nella bisaccia, partimmo per la guerra più divertente che mi sia accaduto di affrontare nella vita», scriverà Scalfari nel gennaio 1986, dieci anni dopo la fondazione di Repubblica, in La sera andavamo in via Veneto.
Gli ingredienti di un successo, al fondo semplici, ma difficili da impastare, nella convinzione che «per noi i problemi della linea politica e la struttura editoriale del prodotto facevano tutt’uno». Una strada lontana, perciò, dal giornalismo gassoso, evanescente, che al riparo del mito dell’obiettività conduce al nullismo delle posizioni, alle interviste senza punto interrogativo, alle inchieste che non si confrontano mai con il potere e con i poteri, con le seduzioni e le intimidazioni del potere e dei poteri.
Ma anche alternativa a quella del giornalismo tifoso, urlato come un coro da stadio, quasi sempre a osanna del padrone di turno e del suo referente politico. Tutti elementi che nei decenni hanno finito per togliere credibilità al giornalismo, a farne rinsecchire la pianta, a far somigliare i prodotti editoriali a supermarket con gli scaffali sempre più gonfi e carichi, su cui puoi trovare di tutto, tranne l’essenziale: un punto di vista sull’Italia e sul mondo.
L’agonia
«Il nodo che da mesi si andava stringendo al collo della stampa italiana è diventato pericolosamente soffocante negli ultimi giorni. È un panorama estremamente allarmante perché non risparmia quasi nessuno. Giornali grandi e giornali piccoli, al nord e nel mezzogiorno, proprietà di editori e proprietà di gruppi industriali, giornali conservatori e giornali di sinistra. Lo sfascio è generale, l’inquietudine dei giornalisti e degli operai è crescente, le manovre di gruppi che dispongono di denari di dubbia provenienza s’infittiscono, antiche testate chiudono o sono sull’orlo del fallimento», scriveva Scalfari in un editoriale intitolato “Giornali in agonia” (2 luglio 1976).
Un mese dopo, in un altro editoriale, tornava a chiedersi: “Perché muoiono i giornali”. Sono gli anni in cui la loggia massonica P2 assalta e conquista il gruppo Rizzoli e il Corriere della Sera: Scalfari intuiva la mano di un burattinaio occulto e denunciava, senza timore di essere accusato di attaccare un giornale concorrente.
«È evidente che la vittima sacrificale di questa operazione è in primis la libertà di stampa. I giornali che si sentono o dicono di sentirsi liberi debbono perciò contrapporre un’estrema difesa. Non siamo infatti in presenza d’un programma aziendale di normale rinnovamento e espansione, ma ad un progetto politico dei più oscuri e preoccupanti; ad un progetto, per dirla in breve, che ha tipici connotati di regime», scriveva il 30 maggio 1976.
Giornalismo di apparato
Era il periodo in cui Aldo Moro nel 1978, dal covo delle Brigate rosse, scriveva nel suo memoriale che «la stampa italiana costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza... Il paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale. Infatti su 20-25 seri giornali è difficile bloccare; su 5 o 6 sì. La stessa macabra grande edizione sulla mia esecuzione può rientrare in una logica, della quale forse non è necessario dare ulteriori indicazioni». Una notazione che oggi ha il sapore della profezia.
Era la natura politica del giornalismo di Scalfari, il suo essere un giornalista politico, a provocare le reazioni degli altri poteri. La fine di quel giornalismo politico ha significato un doppio impoverimento, del giornalismo e della politica. È l’assenza di quell’ambizione a incidere sulla politica che consegna oggi il giornalismo al più atroce dei destini, la perdita di peso, la trascurabilità, l’inconsistenza. Concentrazione e smantellamento di testate, transizione tecnologica incompleta (alla fine degli anni Settanta l’informatica, oggi il digitale), editori rappresentati da un funzionariato mediocre e scarsamente creativo di fronte alla crisi o, peggio ancora, mossi da ragioni oscure e non decifrabili sul piano strettamente imprenditoriale, lobbisti scatenati, conformismo delle redazioni e delle firme che fanno la linea, un giornalismo di apparato straordinariamente sensibile a ragioni extrapolitiche, tutto questo ha trasformato l’informazione in una cittadella dell’informazione, assediata dall’esterno per via di poteri anche internazionali, e dall’interno. Ma non sembra suscitare preoccupazione nel mondo politico, finanziario, imprenditoriale e neppure nella categoria giornalistica. Si assiste allo scivolamento passivamente, fingendo di non vedere che tutto questo parli dello stato di salute allarmante della nostra democrazia.
Il coro
Per questo i cento anni di Eugenio Scalfari lasciano il segno di una nostalgia. «Il senso di una storia non può che esser corale», scriveva nella pagina finale della sua autobiografia, «e come in un coro le singole voci non si distinguono separate dal tutto. Così accade per i fatti della vita. Solo nella memoria ridivengono gelosamente nostri e non più comunicabili ad altri se non, con fatica, a noi stessi».
Ma ora, direbbe il Direttore, sarebbe il tempo di ricominciare.