il Giornale, 3 aprile 2024
La vera letteratura è una roba da matti
Chi più e chi meno, ognuno è pazzo a modo suo. Ma i più pazzi di tutti sono gli scrittori che s’inventano i loro pazzi e ne scrivono. La loro è lucida follia. Agiscono come i bambini quando giocano, cioè fanno corrispondere la fantasia (il desiderio espresso consapevolmente) con la follia (la paura causata involontariamente): prima costruiscono mentalmente un tipo di pazzo, cioè quella particolare forma di pazzia, quello specifico carattere, poi la mettono in scena, vale a dire a confronto con i non-pazzi. Così, i pazzi degli scrittori, come i giochi dei bambini, sono pazzi per procura, e i romanzi o i racconti in cui vengono ricoverati dal loro autore come in un manicomio a cielo aperto, nel manicomio della società, sono doppiamente luoghi della follia.
Scrive il diciassettenne Gustave Flaubert nell’incipit di Memorie di un pazzo, il suo esordio letterario del 1838 (ma pubblicato postumo, fra 1900 e 1901, in quattro puntate su La revue blanche): «Perché scrivere queste pagine? A cosa possono servire? Che ne so, in fondo, io stesso? È molto stupido, mi sembra, andare a chiedere agli uomini il motivo delle loro azioni e dei loro scritti. Sapete voi forse perché avete aperto i miserabili fogli che la mano d’un pazzo è in procinto di vergare? Un pazzo. Già la parola suscita ripugnanza. Chi sei, tu, lettore? In quale categoria ti poni? In quella degli sciocchi o in quella dei pazzi? Se ti si facesse scegliere, la tua vanità propenderebbe nonostante tutto per la seconda condizione». D’accordo, qui c’è di mezzo una donna, Élisa Schlésinger, e le donne sono ottime conduttrici di follia, come l’acqua per l’elettricità. Accade con Angelica per Orlando in Ariosto, e con Dulcinea per Don Chisciotte in Cervantes, e con Satsuko per Tokusuke in Tanizaki...
Accade anche con Sophie per Aksentij Ivanovic Popriscin nel racconto del 1835 Memorie di un pazzo di Gogol’ (ora riedito da Adelphi, pagg. 103, euro 10, a cura di Serena Vitale). Popriscin è un funzionario di un non specificato dipartimento, e Sophia è la figlia del suo direttore. Popriscin, il cui compito più delicato è fare la punta alle penne del direttore, è innamorato della ragazza, e spera di sposarla per avanzare nella tavola dei ranghi. Non riuscendovi, va fuori di testa. «Confesso che da qualche tempo ho cominciato a vedere e sentire cose che nessuno ha mai visto o sentito», dice a sé stesso e al lettore, in quanto voce narrante. Infatti: ascolta un dialogo fra la cagnetta di Sophia e quella di una sua amica; ruba il diario di una delle due cagnette; si convince di essere l’inesistente re Ferdinando VIII di Spagna; annuncia che a breve la Terra andrà a posarsi sulla Luna e via delirando. Infine, quando un medico ne dispone il ricovero, lo chiama «il grande inquisitore»...
Per Gogol’ però la più grande pazzia, la pazzia che tutto contiene e tutto determina, è quella causata dall’incasellamento delle persone nei compartimenti stagni della citata tavola dei ranghi, il sistema zarista che ordina i gradi nell’esercito, nel governo e nella stessa corte. E che origina, volendo, una prefigurazione dell’uomo macchina, con la conseguente alienazione di chi sta in basso nella scala sociale. Da questo punto di vista, c’è un altro matto, in letteratura, che merita di stare a fianco del russo Popriscin. È cinese, e la sua storia... ha fatto la storia della lingua cinese. È l’anonimo protagonista di Diario di un pazzo (ultima proposta in italiano da Luni, l’anno scorso) di Lu Xun (1881-1936) il quale, con questo racconto datato 1918, impose anche in ambito colto il baihua, cioè il volgare parlato dal popolo. Qui manca l’elemento femminile, ma c’è l’ingrediente fondamentale, la «mania di persecuzione» che è anche di Popriscin. Occhio al periodo: siamo nei primi anni di vita della Repubblica cinese, e già si prepara la guerra civile fra nazionalisti e comunisti. Lu Xun, da parte sua, propende per i secondi, ma da anarchico, e senza mai militarvi. E che cosa sceglie come ossessione-metafora? Niente meno che il cannibalismo. Il Nostro, infatti, equivocando gesti, smorfie, dialoghi dei suoi compaesani, compreso suo fratello, crede che gli altri vogliano mangiarlo. In un crescendo di parossismo (e di ironia) quest’uomo viene inghiottito dal terrore. Per lui niente manicomio, ma l’esilio chissà dove, coltivando la speranza che l’umanità sappia riconquistare l’innocenza perduta. Ecco le sue ultime parole: «Forse vi sono ancora bambini che non hanno mangiato carne umana. Salvate i bambini!». È pazzo, ma non del tutto.