il Giornale, 3 aprile 2024
Recep Tayyp Erdogan
Disse Recep Tayyp Erdogan nel 1998: «Le moschee sono le nostre caserme, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette, i fedeli i nostri soldati». Per questa frase, ai tempi, Erdogan fu arrestato per incitamento all’odio religioso. Oggi praticamente è il sultano della Turchia, e non dobbiamo credere che le recenti (...)
(...) amministrative abbiano cambiato granché: nel maggio scorso trionfò col 52 per cento dei voti e le prossime presidenziali e parlamentari saranno nel 2028, ergo avrebbe tutto il tempo di mettere mano a una riforma della Costituzione per consentirsi l’ennesimo mandato.
Si dice, ora, che però abbia vinto la Turchia più occidentale e laica e liberale: tutto molto relativo, considerando che l’ha scritto anche Lucio Caracciolo su Repubblica il neosindaco di Istanbul è uno che recita il Corano durante i comizi, mentre l’ex avversario di Erdogan alle presidenziali è uno che accusa il Sultano di non aver scagliato le Forze armate turche contro Israele. Non c’è turco, per farla breve, che non auspichi il ritorno a una «grandeur» ottomana come nei secoli passati, un progetto imperiale che nelle mani di Erdogan pare già avviatissimo.
Nel frattempo lui, Erdogan, mostra infinite facce che ogni volta presenta come l’unico e orgoglioso volto della Turchia, ottenendo tutto quello che vuole con ricatti diplomatici e militari che scivolano morbidi come scimitarre nel burro. Il burro siamo noi Occidente, che trattiamo questa Turchia coi guanti come se fosse uno staterello lontano e invece non bussasse alle nostre porte con rancori secolari mai sopiti, e come se non si trattasse di un altezzoso neo Stato «forte» che ha sostanzialmente abrogato la democrazia e appaia più che mai intenzionato, come è, a tenere alta una generica difesa dell’Islam funzionale all’affermazione degli interessi geopolitici di Erdogan e all’espansione della sua influenza in Asia e nel Mediterraneo. Per un po’, in Europa, ha resistito la Francia, bellicosa con la Turchia sulla Libia, sul Mediterraneo Orientale, sulla regione armena del Nagorno Karabakh (attaccata dall’Azerbaigian) dove Erdogan nel tempo ha perfezionato un odio per gli armeni che è perfettamente sovrapponibile a quello di Hitler per gli ebrei. Meno di quattro anni fa, in un discorso presidenziale ad Ankara, Erdogan denunciò «l’islamofobia» quale «peste dei Paesi europei» che sono «i veri fascisti, eredi dei nazisti» e invitava a boicottare i prodotti francesi. Ma Erdogan ne ha sempre avuto per tutti: persino per gli Stati Uniti e per la Nato, di cui la Turchia fa parte: quattro anni fa, dopo la minaccia di sanzioni perché Erdogan aveva comprato il sistema anti-aereo S-400 dalla Russia, Erdogan rispose agli Usa così: «Applicatele pure, noi non siamo uno Stato tribale, siamo la Turchia».
Loro sono la Turchia, e alla Turchia, non fosse chiaro, importa zero se non entrerà nell’Unione europea: in compenso, da tempo, agita questa esclusione come uno spauracchio, come una prova del grande pregiudizio contro l’Islam e contro la «umma» di cui Erdogan è divenuto leader fondamentalista in giacca e cravatta. Uno che, nel 2016, disse che uomini e donne non possono ricoprire le stesse posizioni «per natura e per indole». La figlia di Erdogan, Summeyye, erede politica, in compenso dice che compito dell’uomo è «portare il pane a casa e mantenere la moglie e i figli», sicché è giusto che «alle figlie spetti una quota minore di eredità». La moglie di Erdogan, Emine, invece sostiene che la donna «è soprattutto madre» e che le turche dovrebbero trarre «ispirazione» dagli harem «che preparavano le donne alla vita» (non è chiaro quale, visto che le concubine erano praticamente incarcerate) e comunque le due, figlia e moglie, girano entrambe a capo coperto. Diceva questo, Erdogan, mentre incassava altri tre miliardi di euro (tre ne aveva già presi) nel secondo anniversario dell’accordo Ue-Turchia sui migranti seguito alla sua cordiale minaccia di riversare milioni di rifugiati siriani presenti in Turchia in direzione dei Paesi membri dell’Europa. Intanto faceva il pesce in barile sull’Isis, esportava armi in Siria (prima di invaderla) e continuava a negare il genocidio turco degli armeni e di passaggio chiudeva giornali, incarcerava giornalisti e scrittori, censurava internet, e lasciava scrivere, nei suoi libri di Storia, che l’America la scoprirono i musulmani nel 1178: non Cristoforo Colombo.
Nulla di strano se Erdogan sia diventato anche un riferimento internazionale per squilibrati con la decapitazione facile. L’Europa in fin dei conti, l’ha sempre trattato come un’antipatica canaglia. A destra, leghisti a parte, c’era Berlusconi che lo adorava e che vedeva tutto in chiave amicale-commerciale; a sinistra mediamente se ne fregavano (comunisti a parte) e lasciavano che la linea la dettasse Romano Prodi o, da premier, quel Mario Monti che nel 2012 ancora auspicava l’ingresso turco nella Ue. Intanto il «sultano» si faceva costruire un palazzo megalomane da 800 milioni di dollari (cercatelo su internet, roba da Mille e una notte) e irrideva le lagnanze di chi faceva notare che stava reprimendo col pugno di ferro ogni protesta anti-governativa. Il mondo intero, addirittura, per qualche giorno si bevve la panzana che Erdogan potesse fungere da mediatore per riavviare un accordo tra Russia e Ucraina. Ma nel loro colloquio ad Astana (ottobre 2022) Vladimir Putin ed Erdogan parlarono solo dei legami economici della Turchia con Mosca, di gasdotti, di esportazione di cereali, cose così.
Poco o nulla è cambiato in Erdogan. Nei suoi comizi non c’è una volta che non cerchi di intestarsi ogni protesta del separatismo islamista. Nel 2018, in un tweet diretto al primo ministro israeliano, scrisse: «Hamas non è un’organizzazione terroristica e i palestinesi non sono terroristi». Ora, dopo il massacro del 7 ottobre, è subito saltato sul carro di Hamas nella percezione che la questione arabo-israeliana fosse a un punto di svolta: non aveva calcolato solamente che il carro pro Hamas potesse dimostrarsi così affollato.