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 2024  aprile 02 Martedì calendario

Statue sessiste

A Margherita Hack è andata bene. Forse perché se ne andò a novantun anni, forse perché aveva passato la vita intera a dar battaglia con toni ruvidi, forse perché era complicato associarla all’eros. O forse, più probabilmente, perché l’artista che ha firmato la sua statua è una donna, Sissi. Fatto è che da due anni il suo bronzo in largo Richini a Milano la onora davvero: «Intenta a osservare le stelle mentre emerge dal vortice di una galassia, la scienziata è raffigurata mentre alza le braccia verso l’alto, simulando un telescopio».Ma le altre? Perché mai Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, uccise in Somalia e in Afghanistan in guerre scatenate da fanatici islamisti odiatori di ogni donna libera, dovrebbero sentirsi onorate d’essere raffigurate completamente nude come nelle statue dedicate loro ad Acquapendente (Viterbo)? Per la loro «purezza», rispose l’autore: «Le due giovani sono unite in un cerchio immaginario con l’acqua di una fontana che sgorga da un foglio di giornale, a voler rappresentare il continuo flusso di notizie che è la sorgente vitale del giornalismo moderno e per cui hanno sacrificato la vita». Ma ha senso? A qualcuno è mai passato per la testa un bronzo nudo di James Foley decapitato dall’Isis in Siria o di Enzo Baldoni rapito e ucciso in Iraq? Mai.
Non si discute del nudo della Venere di Milo. Rendere onore con una statua è un’altra faccenda. Ed è qui che Tomaso Montanari nel suo Le statue giuste (Laterza), dedicato alla cancel culture e all’obbligo non di distruggere via via le icone di Nefertiti, Colombo o Leopoldo II ma «correggere, integrare, risemantizzare lo spazio pubblico» proprio per «cambiare la storia scritta dai vincitori, dai fascisti, dai colonialisti, dai maschi o dai bianchi, usare le opere d’arte come vive sentinelle», rilancia una polemica sacrosanta sulla rappresentazione celebrativa della donna nella società italiana. Certo, il tema non è solo nostrano. Basti citare la scrittrice, filosofa e attivista Mary Wollstonecraft, autrice nel 1792 del libro A Vindication of the Rights of Woman. Perché mai, hanno chiesto irritate molte londinesi, farne una statua nuda? «Perché i vestiti definiscono le persone e la nudità è un modo per andar oltre», ha risposto l’autrice Maggi Hambling spiegando al «Guardian» che «ci sono molti schlong» (slang: una parte per il tutto, intraducibile senza essere volgari) «che onorano gli uomini nell’arte». Vicino alla «sua» proto-femminista nuda sulla facciata della Royal Academy i filosofi Bacon, Leibniz, Locke e Smith vengono onorati completamente vestiti? Spallucce.
In Italia però, scrive il rettore dell’Università per stranieri di Siena, lo squilibrio di genere è particolarmente grave e non solo sulle statue ad honorem: «Su cento strade dedicate a maschi, ce ne sono mediamente solo otto dedicate a donne». Colpa di una tradizione retrograda destrorsa? No: «Prendiamo per esempio Firenze, una città in cui la destra non ha mai governato dopo la Liberazione. Su 2.438 strade totali, 1.220 sono intitolate a maschi e solo 110 a donne. E di queste ultime 25 sono la Madonna; 26 sante, beate e martiri; 12 suore, o comunque figure del mondo cattolico; 5 figure mitologiche e poi 17 figure storiche e politiche; solo 8 letterate e umaniste; 3 scienziate; 6 donne dello spettacolo; 2 artiste e infine una sola donna atleta».
L’equivoco
«La Violata» di Ancona
è inadatta a costituire
un simbolo della lotta agli abusi sulle donne
Quanto ai monumenti, Le statue giuste cita il primo censimento della rappresentanza femminile nelle statue elaborato dalla associazione di lavoratrici e lavoratori del patrimonio culturale Mi Riconosci?: «I risultati sono illuminanti: in Italia ci sono solo 171 monumenti dedicati a donne, su un totale non quantificato ma che certo ascende all’ordine di decine di migliaia. Per esempio, a Milano, siamo a una statua di donna contro 125 di uomini, e tra i busti romani del Gianicolo siamo a 228 maschi contro una donna». Insomma, «cosa dovrebbe pensare una ragazza di oggi, passeggiando nella sua città? Cosa si aspetta da lei la Repubblica, quali modelli le offre, quale idea di società le propone? E i giovani maschi italiani non rischiano di avere, dall’apparato monumentale della memoria che segna il nostro spazio pubblico, l’ennesima conferma di essere i padroni della storia per diritto di genere?».
Il panorama, denuncia durissimo il libro Comunque nude. La rappresentazione femminile nei monumenti pubblici italiani a cura di Ester Lunardon e Ludovica Piazzi del gruppo Mi Riconosci? (Mimesis Edizioni) è sconfortante. Fatta eccezione per Grazia Deledda, Anita Garibaldi (col cognome di lui) e Cristina Trivulzio di Belgiojoso, le figure di donne entrate nella storia italiana sono rarissime e nel 51% sono sbucate nel Pantheon iconografico solo dal 2000. Di più: «Su 111 statue considerate, il 7% rappresenta partigiane, mentre il 37% professioni particolarmente faticose sul piano fisico. L’11,5% sono infatti lavandaie, la professione femminile più rappresentata, il 6% mondine». E la quota di figure femminili per meriti intellettuali o artistici? Bassa: il 17%. Un solo esempio? In Prato della Valle, la celeberrima piazza padovana tra le più grandi d’Europa, ci sono 78 statue di uomini e manco una di donne. La stessa idea lanciata due anni fa di aggiungere tra Savonarola e Galilei, Tito Livio e Petrarca, la prima studiosa al mondo a essersi laureata in filosofia proprio a Padova nel 1678, cioè Elena Lucrezia Corner Piscopia, statua già presente, al Bo, è al palo. Che il trasloco sia fermo perché non è nuda?
Domanda provocatoria. Ma neanche troppo, a leggere le decine di casi segnalati da Comunque nude . Basti sfogliare le foto di alcune statue più o meno recenti. Come la Lavandaia di Bologna, una donna nuda inginocchiata in una bacinella che «nella sua nudità lava e si lava» secondo l’ideatrice per «trasformare l’acqua nella materia libera del sogno e della creazione artistica secondo la Psicanalisi delle acque di Gaston Bachelard» risvegliando palpiti di vecchi frequentatori. O il Monumento al Tortellino di Castelfranco Emilia: «Una donna si spoglia nella sua stanza in una locanda mentre l’oste la spia dal buco della serratura e le sue nudità sono così scioccanti per la psiche dell’uomo da rasentare l’estatico, che poi verrà sublimato nella creazione del tortellino». O ancora la Spigolatrice di Sapri ispirata alla fallita spedizione di Carlo Pisacane, cantata nel 1857 da Luigi Mercantini e celebrata tre anni fa con la statua di una bonazza sexy strizzata in un abitino aderente così lunare rispetto alle popolane dell’800 («Fosse stato per me l’avrei fatta tutta nuda», brontolò lo scultore) da far dire anche a Milo Manara: «Le avrei almeno messo un cesto di spighe in mano». O per finire (ma ce ne sono altre...) La Violata di Ancona, descritta da «ArtTribune» così: «Un simbolo della lotta contro la violenza sulle donne, che con un certo cattivo gusto e una qualità estetica a dir poco discutibile, riproduce la silhouette di una ragazza nuda e sofferente, vestita solo di brandelli di stoffa: la testimonianza di uno stupro, né più né meno». Ma quasi ammiccante, nel suo orrore, alla perversione voyeuristica. Al punto di essere stata attaccata negli anni proprio dalle donne al grido di «Abbattiamo le statue di donne sessualizzate». Fanatiche? Per niente, rispondono le curatrici del libro Comunque nude : «Ogni volta che pensiamo alla Violata , dedicata alle donne vittima di violenza, restiamo disarmate. Ci voleva tanto a chiedere preliminarmente il parere di una delle tante associazioni attive sul tema?».