La Stampa, 2 aprile 2024
Intervista a Paolo Rossi
«L’odore della guerra qui, a Trieste, si sente molto più che nel resto d’Italia. Perché da qui la guerra non è mai andata via», esordisce Paolo Rossi. Parte da un punto di vista molto particolare per spiegare, dal suo punto di vista, quanto stia cambiando di questi tempi il lavoro di chi fa satira e quanto venga condizionato dal clima generale, dai conflitti che incombono e si fanno sempre più vicini. Rossi – si sa – non appartiene alla razza di quelli che si fermano davanti al politicamente corretto o al politicamente conveniente, tuttavia la guerra, magari, qualche limite lo pone pure a lui. Dopo decenni a Milano, da qualche tempo è tornato a vivere nella sua terra natale, ma è comunque sempre in moto e a contatto con altre realtà: con lo spettacolo Da stasera si recita a soggetto!, personale rilettura del testo di Pirandello ed esercizio di stile sull’improvvisazione, stralunato, trascinante e interattivo, sta girando l’Italia e, dopo qualche tappa in Alto Adige, sarà a Novara (20-21 aprile) e Genova (23 aprile).
Ci può spiegare come è possibile?
«Abbiamo una storia dietro di noi: a Trieste, con i funerali di Francesco Ferdinando d’Austria e della moglie assassinati a Sarajevo, è cominciata la Prima Guerra Mondiale e qui si è conclusa la Seconda, molto dopo il resto d’Italia: mio padre tornò a casa solo nel 1948 e la questione territoriale si trascinò anche di più. Negli Anni ’90 dai nostri colli vedevi croati e serbi che si bombardavano e qui vicine erano le basi Usa da cui partivano gli aerei che colpivano Belgrado. Insomma, la guerra c’è sempre stata. E ancora: qui, negli anni in cui ho cominciato a fare teatro, la strategia della tensione, con le sue bombe e le trame occulte. Da comico me ne sono sempre occupato, ho sempre cercato spunti nella nostra Storia. Anche la pandemia, che è stata affrontata come un’altra battaglia seppure contro un avversario inafferrabile, non mi ha fatto tacere, mai smesso di fare teatro, seppure senza mai infrangere la legge: distanziato, recitavo nelle strade e nei cortili».
Questo per quanto riguarda il passato, ma oggi?
«Come puoi interpretare la presenza in rada di una nave da guerra americana per quasi una settimana? La vedi e ti viene da pensare. E ancora: esco di casa e sono in Slovenia, la rotta balcanica dei migranti finisce qui. Anche con loro arriva l’odore acre di guerre, solo più lontane. Al bar capita di incontrare l’ucraino che scherza con il russo. E allora – ancora una volta – ti fai delle domande: chi la vuole davvero la guerra, chi c’è dietro? Tra loro parlavano del loro “politicani”. E non penso che fosse un errore dovuto alla scarsa conoscenza dell’italiano...».
Ma intanto il lavoro del comico si è fatto più arduo?
«Momenti come questo richiedono solo maggiore responsabilità. Per il resto, liberi tutti. Ho la pelle dura. Due aneddoti, per chiarire il mio pensiero. Angelo Cecchelin, comico triestino, era famoso per uno sketch, sempre lo stesso, per cui fu – prima negli anni del Duce, poi sotto Tito, quindi dagli Alleati – sempre arrestato: era sempre la stessa gag, eppure diverse entità ideologiche non lo digerivano. Ai saltimbanchi capita anche questo: la coda di paglia del potere rende il nostro lavoro paradossalmente più difficile e più facile. L’altro mi riguarda: Milano, anni 60, una delle mie prime volte al Derby, dopo le 2 di notte, ora di lupi e malavitosi. Una sera un delinquentello (non un Turatello, per intenderci, che pure lì si faceva vedere) minacciò di spararmi: non lo facevo ridere e mi minacciò, posò la pistola sul tavolino. Accettati la sfida: dissi due battute poi, rapidissimo, “Ed ecco a voi Claudio Bisio!” (ridacchia). Con questi precedenti, cosa puoi mai temere?».
Be’, magari di affrontare certi argomenti troppo spinosi e (come si usa dire) divisivi, tipo Hamas, Gaza, Netanyahu?
«Non rilascio dichiarazioni sul mio pensiero, sono sicuro che in ogni caso verrei subito frainteso. È questo il problema, la polarizzazione e il pregiudizio. Solo a teatro sono sicuro che questo non accadrebbe: lì racconto storie e non si possono estrapolare e stravolgere storie»
Insomma, citando e adattando: lotta dura senza paura?
«Qualche rischio lo corriamo. Ed è quello di cadere in depressione, perché la situazione è davvero molto pesante. Ma è cosa da evitare assolutamente: un comico depresso è da denuncia all’albo professionale».
Lei ha lavorato parecchio con Dario Fo: cosa direbbe lui, oggi?
«Ma anche cosa direbbero Jannacci, Gaber, Strehler. Me lo chiedo spesso. E ho un punto interrogativo come risposta. Ma non è così male, avere solo domande e nessuna riposta».
A teatro com’è l’atmosfera generale?
«Se c’è una cosa che la pandemia mi ha chiarito definitivamente, è che il teatro è un rito collettivo di cui la gente ha bisogno. Noi improvvisiamo e lo facciamo partecipare davvero: ogni volta è una sorpresa, con i problemi reali del pubblico che salgono sul palco. C’è davvero voglia di partecipare. Ecco perché dico che il teatro, fatto in un certo modo, è una calamita che apre finestre sulla realtà e la infetta positivamente, porta gioia e voglia di vivere. L’umore che arriva dalla platea all’inizio è molto variabile, ma alla fine c’è sempre questa convinta partecipazione, questo rito collettivo per cui tutti salgono sul palco e si mettono a ballare. Una volta un signore si indignò per il trattamento cui avevamo sottoposto Pirandello: “Vergogna”, urlava. Venne messo in fuga da una risata collettiva».
E quando questo accade, lei come si sente?
«Molto orgoglioso del mio lavoro, se la gente si appropria del teatro e dimentica cosa l’aspetta fuori. Per qualcuno è danzare sull’orlo del vulcano. Per me è giocare (nel senso del “to play” inglese o del “jouer” francese) con le emozioni: risvegliarle, rendere coscienti delle paure che proviamo. E nel momento in cui prendono corpo, far capire che sono indotte: dal pensiero unico televisivo, dai media uniformati, dalla rabbia dei social. Io vedo in corso una guerra psicologica, ben più paralizzante di quella vera». —