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 2024  aprile 02 Martedì calendario

La classe media vista da Camilleri


Il 15 settembre del 1984, dal Teatro Antico di Taormina, durante la sua ultima apparizione pubblica, Eduardo De Filippo tenne un discorso diventato celebre. Non pronunciò parole facili da maneggiare, né da ricevere. Dopo aver parlato del proprio carattere difficile, De Filippo affrontò il tema delle sue abitudini. Disse che il figlio Luca (anche lui attore e regista), nonostante il cognome che portava, aveva fatto la gavetta, era venuto su dal nulla sotto il gelo delle abitudini paterne. Su questa parola, gelo, Eduardo si soffermò in modo stentoreo. «È stata tutta una vita di sacrifici e di gelo! – disse – così si fa il teatro, così ho fatto».
Tra i figli putativi di Eduardo c’era Andrea Camilleri. Nel 1960 Camilleri fu incaricato da Maurizio Ferrara, un funzionario di Rai2, di curare come delegato alla produzione, la prima serie televisiva tratta dalle commedie di Eduardo. Camilleri vide Eduardo alle prese con gli attori, gli scenografi, gli addetti del centro di produzione, i piccoli censori della tv di Stato. Il grande drammaturgo e il futuro romanziere strinsero un buon rapporto. «Tutti i registi sono cattivi – ebbe a dire Camilleri – Eduardo probabilmente era esplicitamente cattivo, ma torno a dire che era una cattiveria mirata, per tirare fuori dall’attore i suoi personaggi». Il teatro. La cattiveria. Il gelo. Sono queste le forze che muovono Un sabato, con gli amici, romanzo che Camilleri pubblicò nel 2009, quando il successo lo aveva reso già da tempo lo scrittore più popolare d’Italia e la morte era lontana dieci anni.
A chi ha conosciuto Camilleri attraverso le storie di Montalbano, Un sabato, con gli amici risulterà un libro totalmente imprevisto nella sua oscurità, un romanzo duro, perfino disturbante, un viaggio nelle tenebre della normalità borghese, in Italia, all’inizio del XXI secolo.
Come agiscono su di noi i traumi infantili? Quanto ci si può guastare nel passaggio dalla giovinezza all’età adulta? Questa storia ruota intorno a una delle più equivoche abitudini borghesi: la rimpatriata. Un gruppo di amici si rivede dieci anni dopo la fine dell’università, vent’anni dopo la fine del liceo. Oppure, un amico di cui tutti avevano perso le tracce ricompare dal nulla dopo tempo, fa irruzione nelle vite di chi ha continuato a frequentarsi o non è riuscito a farne a meno. Solo chi ci ha visti durante gli anni della formazione ci conosce davvero, solo con lui o con lei scatta (anche se non lo vogliamo) un’intimità profonda, a volte imbarazzante. Con quali occhi ci si rivede? Che cosa sono diventati il dolore, le speranze, le paure che avevano caratterizzato la nostra giovinezza? Quali virtù sono rimaste intatte? E quali guasti, allora germinali, sono cresciuti a dismisura? Soprattutto: che tipo di segreti legano gli amici di vecchia data? Tra chi si conosce da un pezzo c’è quasi sempre un patto di riservatezza. Quei segreti sono a volte terribili. Il patto diventa allora una bomba inesplosa.
A partire dalla seconda metà del Novecento, sono molte le letterature nazionali (e le cinematografie) che si occupano della questione. Con esiti e poetiche diversi. Negli Stati Uniti, ad esempio, è facile pensare a It di Stephen King o a Pastorale americana di Philip Roth. Un horror e un romanzo sociale, due generi lontani tra loro, accomunati da una medesima vibrazione di fondo: la nostalgia, la tenerezza (al limite un dolente e affettuoso senso del ridicolo) con cui King e Roth guardano i propri personaggi diventati adulti alle prese con gli amici di un tempo. Alcuni sogni sono infranti, d’accordo, ma verso le imperfezioni (e la fragilità) del camminare verso la vecchiaia (nel presagire, per la prima volta, la fine) c’è una quieta compassione. Nei casi estremi, il potere annichilente della tragedia travolge – nobilitandoli – alcuni di questi personaggi.
In Italia, niente di tutto questo. La tragedia ci è preclusa, la commedia non è quella di Billy Wilder. La commedia all’italiana è molto più dura, cattiva, sferzante, irriverente di qualunque genere analogo proveniente da altri Paesi. L’assoluta mancanza di autoindulgenza ci distingue. È una mancanza ammirevole e sospetta. E quale canovaccio segue, di solito, la commedia della rimpatriata all’italiana? Se altrove diventare adulti significa fare (anche dolorosamente) i conti con i propri limiti e fallimenti, in Italia vuol dire constatare la trasformazione dei ragazzi di un tempo in veri e propri mostri, e in un modo così conclamato, sbracato, assordante, ustorio, irredimibile da lasciare attoniti. Basti pensare a Compagni di scuola, film di Carlo Verdone del 1988, tra i meno scanzonati (e tra i più riusciti) del regista romano. In modo analogo, gli ex ragazzi di Un sabato, con gli amici, sono uomini e donne di buona presenza, vivace intelligenza e discreta posizione sociale a cui gli anni hanno infuso una dose di cinismo, malevolenza, perfidia, e uno sfrenato individualismo difficili da trovare in altri contesti. Ricatti, vendette, doppiogiochismi, esche e trappole pronte a scattare, il tutto allestito tra studi professionali ben avviati, uffici di rappresentanza e scannatoi nascosti nei quartieri residenziali: viene in mente il più tagliente dei secoli, il Settecento, e la cattiveria adamantina di Pierre de Laclos.
Ma perché Camilleri allestisce, intorno a questi personaggi, e in modo così chirurgico e spietato, il suo teatro della crudeltà? Tra le diverse, ho rintracciato almeno tre ragioni degne di nota. La prima riguarda il disprezzo, cioè l’opinione che Camilleri doveva essersi fatto del popolo italiano all’inizio del XXI secolo. O, perlomeno, di una sua particolare rappresentanza. Lo scrittore di Porto Empedocle aveva visto il fascismo da ragazzo (il cui disastro, non si stancava di ripetere, gli era sembrato pari solo al ridicolo di cui il regime era riuscito a circondarsi), ma aveva vissuto poi da giovane uomo la nascita della democrazia e del suffragio universale, il protagonismo dei partiti popolari, il riscatto degli umili, la conquista di diritti a lungo negati, il boom economico, la trasformazione di un paese arretrato in una potenza moderna. Aveva riposto speranze nel comunismo italiano, Camilleri, ma aveva creduto in modo ancora più intenso nella possibilità che gli italiani (da sudditi, sottoposti, conquistati, obbligati a saltare nei cerchi infuocati) diventassero un popolo libero, affrancato. Lui stesso (da scrittore, drammaturgo, insegnante, intellettuale, artista, quando l’arte era considerata istituzionalmente una forza emancipativa) aveva fatto la sua parte in questo lungo e appassionato cammino. Solo che poi qualcosa aveva cominciato ad andare storto.
«Ce l’avevamo quasi fatta, a diventare un popolo». È una frase attribuita al Mario Monicelli degli ultimi anni. Non è detto l’abbia davvero pronunciata lui, ma rende l’idea. L’arrivo del nuovo secolo e, ancora più, qualche anno addietro, il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica ha segnato (per dirla questa volta con Umberto Eco) l’evidenza di una marcia a passo di gambero. Il tracollo della classe politica con la politica ridotta a farsa e mercato, l’ingiustizia sociale di nuovo galoppante, la crisi economica e l’ancora più evidente smarrimento sociale e civico si sono fatti sempre più evidenti, la volgarità più conclamata, la gente comune di nuovo tentata dal diventare plebe. Questa ennesima mutazione ha trovato presto i suoi nuovi protagonisti, una nuova classe se non di privilegiati (il potere vero è altrove) di galleggianti. Sono i personaggi che mette in scena Camilleri in questo libro. Non sono più le facce in bianco e nero del neorealismo, non gli irresistibili gradassi del boom, non le masse rivoluzionarie, non i grandi notabili o i mafiosi e nemmeno quel certo tipo di borghesia «con il suo intelligente qualunquismo e la sua triste disperazione» elogiata da Marco Pannella. Piuttosto, sono i discendenti ripuliti di quegli «avvocatucci unti di brillantina e i piedi sporchi» di cui scriveva Pier Paolo Pasolini nella Ballata delle madri, i rappresentanti di una nuova classe media, istruiti, aggiornati, disinvolti, ma divorati da una terrificante amoralità che rischia di diventare la modalità emotiva standard del paese. Tutta la simpatia che Camilleri riserva altrove ai suoi commissari, agli ispettori capo, ai centralinisti, ai giornalisti locali, alle donne coraggiose, agli arrangiati e ai rubagalline qui è assente. C’è una grande differenza tra gente comune e uomo medio. La gente comune può ancora farsi popolo, l’uomo medio no. «Sa cos’è un uomo medio?» (questo è sempre Pasolini, attraverso la bocca e il corpo di Orson Welles ne La ricotta), «è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, colonialista, razzista, schiavista, qualunquista».