La Stampa, 2 aprile 2024
La guerra delle parole
Nessuna guerra è giusta, ma nemmeno la più ingiusta delle guerre deve spegnere la conoscenza dell’altro (del “nemico"). Della sua arte, letteratura, musica, ricerca scientifica; ma anche delle complessità della sua politica interna. Per secoli l’Europa fu straziata da guerre che oggi paiono intestine, ma a nessuno venne in mente di vietare la circolazione delle idee e delle conoscenze, dei pittori, degli astronomi o dei violinisti. Perché allora, nel tempo guasto che viviamo, la guerra russo-ucraina dovrebbe spegnere la voce di Dostojevskij (come si è tentato di fare a Milano-Bicocca), o impedire la collaborazione fra musei russi e italiani? Perché le stragi di Gaza, risposta certo eccessiva al perfido attacco di Hamas del 7 ottobre, dovrebbero impedire il dialogo e la ricerca congiunta fra archeologi europei e israeliani? E perché mai dovremmo sentirci obbligati, tutti e uno per uno, a schierarci al 100% o con Israele o con i palestinesi?
Da sempre fu massima arte politica analizzare i Paesi in guerra e le loro opposizioni interne: premessa indispensabile per ogni proposito di pace anche remota. Dilaga oggi, al contrario, l’impulso ad allargare a dismisura il raggio dei “nemici” da demonizzare: non solo Netanyahu e il suo governo, ma l’intero popolo d’Israele, anche gli oppositori; non solo gli israeliani ma tutti gli ebrei. Occhio per occhio, dente per dente: e sul versante opposto si accusa di antisemitismo non solo chi lo professa inalberando svastiche e giustificando Auschwitz, ma chiunque critichi l’espansione dei coloni israeliani oltre quanto ratificato negli accordi di Oslo, chiunque disapprovi il cinismo politico di Netanyahu.
Queste culture wars incidono profondamente nella sfera pubblica. Loro teatro privilegiato sono le università, protagonisti i giovani: perciò vanno guardate con grande attenzione, specialmente da chi non condivida qualche opinione espressa nei cortei. Dopo decenni in cui abbiamo lamentato il disimpegno politico delle nuove generazioni dovremmo rallegrarci di questa nuova assunzione di responsabilità, e se non siamo d’accordo con loro dovremmo intavolare un dialogo e non ricorrere alla repressione (fino al manganello, come si è visto a Pisa). Questa nuova coscienza del presente è figlia del nostro tempo. Nasce dalla retorica del politically correct, che semplifica e uniforma i linguaggi; e dall’illusione che in un mondo iper-connesso la miglior comunicazione è la più breve. Meglio lo slogan, non un ragionamento; non un saggio breve, ma un tweet. Meglio rifiutare la complessità, ridurla all’osso in un duello fra ciechi che usa l’iperbole come arma contundente.
La violenza dei tempi che attraversiamo spiega la durezza dei linguaggi, incoraggia gli eccessi. Ma non giustifica l’adozione di categorie di giudizio storicamente infondate, e men che mai la tendenza a tradurre l’indignazione, anche se motivata, in terminologie scagliate contro gli avversari a mo’ d’insulto. Le parole sono cose, sono fatti, sono sentimenti ed esperienze. Usandole impropriamente si logorano, vanno soggette a inflazione, perdono il senso che avevano acquistato con la sofferenza e la morte senza dignità di milioni di esseri umani. Perciò è doloroso che due termini fino a ieri quasi sinonimi, “antisemitismo” e “genocidio”, siano oggi usati l’un contro l’altro: la devastazione di Gaza diventa “genocidio”, chi la condanna diventa “antisemita”. In ambo i casi, per esprimere un’opinione comunque difendibile si ricorre a una parola-slogan che confonde le acque. L’atroce accusa di genocidio (dei palestinesi) è una terribile ritorsione non solo per Netanyahu, ma per tutti gli ebrei del mondo, anche quelli che detestano Netanyahu vivendo ogni giorno la memoria della Shoah. Considerare “antisemita” chi non condivide l’attuale politica di Israele, per converso, equivale a etichettare come nazifascista ogni suo oppositore. Queste definizioni urlate rimuovono la natura squisitamente politica del problema e l’analisi delle soluzioni possibili, come quella dei due Stati.
Ma chi condanna il governo Netanyahu per i 32mila morti di Gaza non è perciò stesso “antisemita”. Non lo è Eshkol Nevo quando dice che “diventare malvagi e crudeli quanto Hamas vuol dire far vincere Hamas”, non lo sono le decine di migliaia di israeliani che scendono in piazza contro il loro governo. Quanto a “genocidio”, tale fu il progetto di sterminare sistematicamente un popolo perché razzialmente “inferiore”, come il nazifascismo fece con sei milioni di ebrei, e intendeva fare con tutti gli altri. Nemmeno Netanyahu ha mai proclamato l’intenzione di uccidere tutti i palestinesi in quanto razzialmente tali, e chiamare “genocidio” l’indebita espansione dei coloni israeliani nella West Bank scatena le passioni ma non ha sostanza storica. Il bombardamento anglo-americano di Dresda (1945), senza obiettivi militari, uccise da 30 a 40.000 persone distruggendo la città storica. Fu una strage e una colpa, ma non un genocidio: perché l’intento era vincere una guerra, non sterminare tutti i tedeschi.
La violenza della guerra genera violenza sulle parole. Ma violenza sulle parole vuol dire violenza sulla storia. Vuol dire imporre l’oblio del vero (del passato) per sostituirlo con gli slogan di un presente onnivoro. E che questo accada anche nelle università è sintomo di quel che Adriano Prosperi ha chiamato “un tempo senza storia”, il nostro. Gli ottimisti credono che l’oblio della storia nasca solo dall’ignoranza; ma causa ben più profonda è la manipolazione della storia distorcendone le parole-chiave. I politici, si dirà, lo hanno sempre fatto. È vero, ma altra cosa è se a farlo sono le moltitudini.
La più lucida metafora di un mondo distopico dove il passato cambia forma per adattarsi al presente non è più il classico “1984” di Orwell, ma un visionario manga giapponese, One Piece. Un unico autore, Eiichir? Oda, lo disegna dal 1997 a oggi (più di cento volumi, mezzo miliardo di copie in ogni lingua). In un’isola di quel mondo immaginario sorge l’immenso Albero della Conoscenza (storica), in cui da cinquemila anni si accumulano gli archivi del mondo. Ma il Governo mondiale vieta ogni informazione su un periodo di cento anni ("il grande vuoto"), mentre gli archeologi che frequentano l’Albero vanno decifrando le misteriose iscrizioni, sparse dappertutto, che documentano “il grande vuoto”. Il Governo distrugge l’Albero e l’isola, ma gli storici mettono in salvo quel che possono e continuano a studiare. Forse gli intellettuali e gli universitari di cui avremo più bisogno saranno (sono?) quelli che sapranno usare le parole non come proiettili, ma come strumenti di conoscenza. Rispettandone la complessità. —