La Stampa, 31 marzo 2024
La disciplina della felicità
Noi non amiamo la disciplina. Non pronunciamo neanche la parola, perché subito ci viene da pensare a cose terribili come l’esercito, la caserma, il collegio, la dittatura. In ogni caso una prigione, qualcosa che ha a che fare con un mostro malvagio che ci toglie la libertà. Quindi non la pronunciamo più, la parola disciplina, ci abbiamo messo una pietra su. Peccato, perché le parole sono di per sé innocenti. Disciplina vuol solo dire insegnamento, guida: viene dallo stesso verbo latino “discere”, che significa imparare. È la storia, che grava di colpe le parole. E la storia la facciamo noi. Ed è soggetta a fasi, cicli, corsi e ricorsi.
Oggi il corso della storia è molto chiaro. Genitori che educano alla disciplina? Insegnanti che in classe impongono la disciplina? A ragazzi che non osiamo nemmeno più chiamare indisciplinati, bensì “iperattivi”? A figli che devono crescere in amicizia con gli adulti, alla pari, e liberi di seguire in ogni momento e luogo le loro inclinazioni? No, vediamo bene che non è possibile. Sono cinquant’anni che cerchiamo di abolire la disciplina perché implica il concetto di autorità, e di regole (altre due parole che preferiamo non esistano nelle nostre vite).
Credo che dovremmo cambiare la visuale. La disciplina non c’entra con l’autorità, c’entra con la felicità. Finché continueremo invece con questa storia dell’autorità, resteremo imprigionati in un corto circuito senza scampo. Dovremmo ripristinare la disciplina nell’educazione non perché amiamo l’autoritarismo (e siamo quindi orribilmente reazionari!), ma perché vogliamo la felicità dei nostri figli (e non importano un bel niente le idee politiche!). Questo sarebbe cambiare la visuale. Spostarci, metterci su un’altra collinetta a guardare col cannocchiale. Ci sono tante collinette, non una sola...
Mi pare ci sia un grosso equivoco sul concetto di libertà. Pensiamo che libertà sia non avere limiti. Le regole sono limiti e contrastano la libertà, quindi non le vogliamo. La cosa è buffa, perché viviamo immersi nelle regole e a contatto con le autorità. Quando giochiamo a dama, a scacchi o a scopa, dobbiamo conoscere le regole e rispettarle. Non diciamo al nostro avversario: gioca come ti pare, mangia le pedine quando ne hai voglia, muovi pure il cavallo in diagonale e fai scopa con qualsiasi carta, l’importante è che tu ti senta libero. Non gli diciamo questo, eppure non ci sentiamo autoritari. Così in auto, quando ci ferma un vigile perché stavamo andando agli 80 all’ora in città, non gli diciamo che è autoritario e deve lasciarci liberi di correre quanto ci pare. Paghiamo la multa. Perché disciplina è anche premio e punizione (altre due parole per noi insopportabili).
Invece sono proprio le regole che ci danno la felicità. Le regole e i limiti. Persino nell’arte ci vuole disciplina. La metrica, per esempio, è la disciplina della poesia. Senza la “terzina incatenata”, Dante non sarebbe Dante. E senza la prigione della metrica, non sarebbe mai nato il “verso libero”.
Non dare regole e non fissare limiti è oggi il nostro modo di intendere la libertà. Ed è questa libertà sbagliata, che ci rende infelici e tristi. Se nessuno ci dà regole, se non ci viene mai detto entro quali confini ci possiamo muovere e che cosa è lecito e cosa no, cresciamo spersi e confusi. Potendo fare tutto, ci esponiamo alle delusioni della nostra fittizia onnipotenza, e anneghiamo nella noia di una libertà troppo estesa, troppo uguale.
Prendiamo un ragazzo che ami la pallacanestro, che voglia fare quello tutto il giorno ma è costretto ad andare a scuola. La scuola lo limita, certo. Ma proprio perché ha quel limite, proprio perché può giocare solo un pomeriggio a settimana, quel pomeriggio sarà felice. Se per renderlo libero gli concedessi di giocare tutti i giorni, ne farei un infelice depresso: la pallacanestro sarebbe uno squallido tran tran quotidiano e gli verrebbe a noia, non sarebbe più un desiderio per sei giorni coltivato nella mente, né una conquista.
Ci vuole un temporale, per apprezzare il sole. Che poi, è il pensiero leopardiano de La quiete dopo la tempesta: «Piacer figlio d’affanno». Se il mio lavoro di insegnante non mi avesse imbrigliata in un orario fisso e in un impegno quotidiano, non avrei mai scritto romanzi. Scrivere romanzi era la libertà che mi prendevo al di là del limite. È la disciplina del lavoro che mi ha dato la libertà: ogni ora o mezza giornata che riuscivo a rubarmi era la felicità.
Anche nell’economia familiare ci vuole disciplina: non ti puoi comprare tutte le scarpe che vuoi, e questo produce che, quando finalmente te ne compri un paio, ti sembri di toccare il cielo.
In alcune religioni o pratiche meditative, disciplina è dominio di sé, padronanza dei propri istinti: disciplina interiore. La capacità di aspettare, per esempio, il sentimento dell’attesa. Il “sentimento del tempo”, per dirla con Ungaretti. I genitori potrebbero insegnare ai figli ad aspettare qualche mese, prima di ricevere in dono il giocattolo richiesto: gli regalerebbero il desiderio. E il desiderio realizzato crea felicità, proprio per quel tempo che s’è passato a desiderare.
Non so se cambieremo la visuale. Di sicuro non tornerà più la disciplina, almeno non in tempi brevi. Ci vuole un gigantesco sistema di valori condivisi, perché si possa pensare di educare i figli alla disciplina. Ci vuole una comunità, che si regga su quei valori condivisi. Non ci può essere una famiglia qua e una famiglia là che si mettono a educare alla disciplina, in mezzo a migliaia di famiglie che non lo fanno. O meglio, ci possono essere casi isolati, che però non portano a un cambiamento. Quattro mosche bianche, magari anche prese in giro ed emarginate.
Il problema è che uno di questi valori condivisi dovrebbe essere la capacità di sopportare sofferenze e frustrazioni, visto che la disciplina impone un rigore che può anche dare sofferenza e creare frustrazione, a noi e ai nostri figli. È questo che non siamo in grado di accettare. E torniamo a Leopardi: solo se c’è stato un temporale godremo quando il sole appare, la gallina torna in su la via a zampettare, e il nostro cuore si rallegra. Quindi dovremmo auspicare che i temporali arrivino, non fare di tutto per allontanare le nuvole e dipingere solo cieli azzurri. Educare è proprio questo: permettere ai temporali di esistere affinché ci siano giornate di sole. Anzi, esagero: ogni tanto dovremmo provocare qualche temporale perché splenda il sole nella vita dei nostri figli.